In poche parole, Musica

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Esistono tantissimi capolavori in ambito musicale, quello che non ti dicono mai è che esiste anche tantissima musica brutta”.

Questo me lo disse a sedici anni la mia insegnante di pianoforte del conservatorio, e per quanto semplice come concetto mi sconvolge ancora adesso.

Il motivo di ciò è altrettanto semplice: più o meno tutti ascoltiamo musica o ne siamo investiti su base quotidiana, ma pochi di noi criticano o analizzano quello che ascoltano in maniera attiva. Il commento medio su qualunque brano di qualunque autore spesso si esplicita in un “mi piace” o “non mi piace”, ma scavando già un piano più sotto, chiedendo alla persona il perché di un giudizio così lapidario, spesso non si raggiunge un gran punto di svolta: le risposte al più oscillano tra “non è il mio genere” ed “è molto orecchiabile”.

Certo, se ci si impegna si può trovare spesso fondamento in questi giudizi, però sarete d’accordo con me nel dire che lasciano il tempo che trovano. Sarebbe come passare davanti a un Botticelli, farsi un selfie e commentare: “Che bello! <3”.

Lo sconvolgimento che subisco tutte le volte che ripenso alla frase della mia prof è dato proprio dal fatto che, in quanto umani, siamo molto ricettivi dal punto di vista musicale, ma nonostante ciò al giorno d’oggi siamo letteralmente sommersi da musica insignificante e quella che si porta con sé un significato di qualche tipo è condannata a rimanere nella sua nicchia. Tutto ciò non ha senso.

Sostengo da sempre che la colpa sia dell’educazione in campo musicale, che ognuno di noi dovrebbe avere sin da piccolo: ma purtroppo, per i motivi che sappiamo, viene a mancare dopo le medie, dove al massimo ti verrà insegnato a non fare troppo schifo suonando “Popeye The Sailor Man” al flauto dolce. Però non mi sono mai accontentato di questa spiegazione, dal momento che molti miei coetanei senza grandi studi musicologici alle spalle hanno molto più polso nella critica musicale rispetto alla media e a volte anche rispetto a certi sedicenti professoroni di musica.

Me lo spiego così: la musica, come ogni arte, ha alla base una tecnica, una tradizione, una storia, delle architetture stilistiche che la definiscono come tale. Ignorando queste cose, l’unico modo per ascoltare musica in maniera attiva è fondamentalmente ascoltarne tantissima per tutta la vita; e qui i nodi vengono al pettine, perché la maggior parte di noi – anche se è immersa nella musica tutto il giorno – non la ascolta, tutt’al più la sente.

Su questo prosperano le case discografiche cosiddette major, i talent, i servizi come Spotify e Youtube e in generale il mercato musicale odierno, che cerca di creare non tanto opere d’arte o capolavori immortali ma prodotti di consumo destinati a durare quei tre-quattro secondi, pari allo span di attenzione medio attuale, e generare profitti astronomici.

Fin qui nulla di nuovo, le solite lamentele. Mi dispiace, non ho soluzioni, ma ho delle proposte e come me le hanno tantissimi artisti le cui vite scorrono di fianco alle nostre, parallele ma vicinissime.

Una proposta sarebbe quella di riunirci in quella che un tempo si chiamava “scena” e che ora, per i motivi di cui sopra e altri due, l’individualismo e la fame di potere degli stessi artisti, si è sfaldata; a volte sarebbe utile mettere da parte l’egomania per compiere un passo più duraturo nei confronti della Musica e della comunità.

Un passo in questa direzione potrebbe essere quello di smetterla di alimentare il sistema che tutti i giorni ci offre stupendi concerti in località esotiche – ma senza diaria e in cambio della sola visibilità – e cominciare invece a pretendere un minimo salariale che, sorpresa, c’è amici! In quanto la musica per un musicista è un lavoro, non una passione, non un hobby, non un passatempo; e, se proprio volessimo fare i pignoli, bisognerebbe anche pagarci le tasse.

Un passo ulteriore, anche se è più un’utopia, potrebbe essere chiedersi se come musicisti si ama di più la musica o il mestiere del musicista. Perché se la risposta è la seconda vuol dire che si è solo dipendenti dall’adrenalina, dalla fama, dalle luci della ribalta e pur di avere tutto questo si è disposti a suonare qualunque schifezza che “piace alla gente” (senza interrogarsi sul fatto che sia o non sia musica) venti o più volte al mese.

Perché nella mia insignificante opinione la musica è qualcosa che deve nascere da un’urgenza, dalla necessità di esprimersi con il suono di una chitarra, come di un sassofono o di un qualunque altro strumento, e non deve rendere conto a nessuno se non alla musica stessa.

È proprio la musica la protagonista di questa rubrica, dove mi piacerebbe dare spazio a generi e artisti che lo meritino davvero, senza alcun tornaconto, e dove vorrei approfondire lati della musica che da troppo tempo vengono ignorati o lasciati da parte, in modo che anche voi possiate amarla fin nel profondo.

Proprio per questo vorrei consigliarvi, se la mia supponenza non vi ha già allontanato, la visione di “In poche parole – Musica” la puntata della serie di approfondimenti di quindici minuti di Netflix dedicata appunto alla musica. Scoprirete come mai quest’arte è veramente fruibile e comprensibile da parte di tutti, e sono veramente rari i casi di persone che possono affermare di non capire per niente la musica o non sentire il ritmo.