Il virus ha illuminato la radice del male

Don Giuseppe Dossetti

“E’ apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”: con queste parole dell’apostolo Paolo (a Tito 2,11), la Chiesa introduce la Notte santa. La “grazia”, il dono gratuito, la cui fonte è un amore instancabile, si manifesta nella luce, che abbaglia i pastori e che, dopo tanti anni, conserva la capacità di commuovere anche noi, pur se siamo oppressi dall’incertezza, dalle preoccupazioni e dai lutti di questo anno così difficile.

La grazia prende la forma di un bimbo, nato nella povertà e destinato alla morte in croce. Sembra assurdo, come hanno pensato gli abitanti di Betlemme di fronte all’entusiasmo rumoroso dei pastori: eppure, quella è la via che porta alla vita, anzi, è per quella via che la Vita viene a noi, a ciascuno di noi.

Essa viene anzitutto a offrirci una grande purificazione. Il virus non ha soltanto mostrato la nostra fragilità, ma ha illuminato la radice del male, l’idolatria. Noi abbiamo adorato l’opera delle nostre mani, aspettando da essa la salvezza, abbiamo usato i doni di Dio per costruire il trono dell’uomo. Dall’”empietà” è derivata l’”iniquità”, cioè l’ingiustizia, la profanazione del creato, l’egoismo prevaricatore, la violenza. Non potremo mai fare un bilancio onesto di quello che è accaduto e che ancora accade senza metterci sinceramente in discussione. Anche una certa tristezza rancorosa nasce dalla delusione di accorgersi che i nostri idoli non mantengono le promesse, che l’uomo resta comunque fragile e mortale.

Il sintomo, che ci indica che non ci siamo convertiti dalla nostra idolatria è il disinteresse per quanto sta accadendo fuori dai confini del nostro mondo di privilegiati. Si è applaudito il Papa, quando ci ha ricordato che “siamo sulla stessa barca”, ma non abbiamo tratto le conseguenze da questa evidenza.

Se però ci incamminiamo anche solo un poco per questa via di purificazione, si crea in noi uno spazio per accogliere la domanda, che, grazie alla grande sofferenza di questi mesi, sta pian piano crescendo in ciascuno: qual è la nostra speranza?

L’uomo è più grande dei suoi idoli. Stiamo facendo l’esperienza dei nostri limiti, ma questo è un bene, se il limite si trasforma in umiltà e l’umiltà in ricerca e la ricerca in preghiera, quale che sia la forma che essa prende, anche soltanto l’invocazione di un Tu ignoto.

Il Natale ci offre il contenuto della nostra speranza: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Giovanni 10,10). Questa “vita” è incontro e comunione. Per questo, Gesù ha pregato: “Che essi siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me” (Giovanni 17,22-23). Questa comunione è amore e gioia, ma anche speranza inesauribile, che ci riconcilia con la morte, che diviene l’ultimo, definitivo abbraccio. Nel Natale, proprio per la sua umiltà, ci viene consegnata la parola: “Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo ad esserti fedele” (Geremia 31,3).

Come dobbiamo vivere il nostro tempo? L’Apostolo ci esorta a “vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà” (a Tito 2,12). Con sobrietà, anzitutto, rinunziando agli idoli e restituendo al creato la sua dignità di dono da custodire. Poi, con giustizia. Si tratta di rinnovare l’alleanza che ci lega a Dio e a ogni uomo. La giustizia di Dio non è l’obbedienza a una legge, ma la fedeltà a un rapporto, qualunque cosa succeda. Ecco perché, come ci ricordava san Giovanni Paolo II, giustizia e misericordia vanno insieme. Non c’è vera giustizia, se non abbiamo sempre presente la dignità dell’uomo, di ogni uomo. Per questo, dobbiamo vivere “con pietà”, la pietas dei latini, il senso religioso della vita, lo zelo e il coraggio nel fare il bene, il cuore che sa commuoversi davanti alla sofferenza, che si commuove davanti al mistero dell’uomo e davanti al mistero di un Dio che si fa uomo.

Buon Natale, miei cari.