Il Risorgimento, l’unità d’Italia e Antonio Gramsci

Antonio-Gramsci

Il 17 marzo sono 160 anni dell’unità d’Italia. Noi ne vorremmo parlare ricordando Antonio Gramsci quando, alcuni anni fa, fu tirato in ballo come esempio di meridionalismo antipiemontese. La questione dell’Unità d’Italia è una quistione complessa che ha avuto riflessi nazionali e internazionali. L’Ottocento è stato il secolo dell’anelito dei popoli alla propria indipendenza. E l’epopea risorgimentale ha avuto anche delle pagine di sangue come quella scritta a Bronte, in Sicilia, nell’agosto 1860.

L’attenzione di Gramsci a partire dal saggio incompiuto, perché arrestato dal regime fascista, del 1926 Alcuni temi della quistione meridionale è sempre stata grande per motivi essenzialmente legati allo studio delle forze sociali ed economiche che avrebbero dovuto dare vita alla rivoluzione proletaria in Italia (l’alleanza dei contadini del Sud con gli operai del Nord).

L’analisi gramsciana della storia d’Italia a partire dai Comuni medievali si concentra soprattutto sul rapporto cultura/ceti popolari (subalterni), o meglio sulla frattura alta/bassa cultura (esemplare in questo senso il Rinascimento). È su questa traccia che il Gramsci dei Quaderni sviluppa il concetto di “rivoluzione passiva” o rivoluzione incompiuta riferita al nostro Risorgimento. Una rivoluzione, cioè, calata dall’alto, senza la partecipazione attiva dei ceti subalterni.

L’interpretazione gramsciana del Risorgimento, secondo alcuni storici, si ridurrebbe, come la storia d’Italia nel suo insieme, ad una lotta tra progressisti e conservatori, negando così che il Risorgimento sia stato una rivoluzione passiva. La critica a Gramsci da questo punto di vista – e cioè che le masse rurali non rappresentavano l’elemento rivoluzionario, perché arretrate e non permeate né dalle idee né dallo spirito della Rivoluzione francese – non è infondata, anzi. Gramsci però non poneva l’eguaglianza astratta fra popolo e progresso, bensì l’elevazione politico-spirituale come risultato di una rivoluzione intellettuale e morale del popolo stesso attraverso lo stretto rapporto tra “alta” e “bassa” cultura promossa dall’“intellettuale collettivo”, il novello Principe, ovvero il Partito comunista.

Gramsci non condivideva la lettura radicale-democratica dei Gobetti e dei Dorso che interpretavano il processo di unificazione come mera «conquista regia». Secondo il dirigente comunista sardo la questione, infatti, era più complessa e articolata, anche se riconosceva allo Stato piemontese un ruolo decisivo: infatti senza il suo esercito la debole borghesia italiana non sarebbe riuscita da sola nell’impresa di unificazione nazionale. Lo Stato piemontese ebbe, quindi, un ruolo determinante e tale condizione favorì alcuni gruppi a scapito di altri, rilevando quanto la politica cavouriana seppe influenzare anche gruppi che, almeno formalmente, vi si contrapponevano (ad esempio Mazzini e Garibaldi). Sinteticamente possiamo dire che il governo «borghese» non fu egemonico ma, secondo Gramsci, di dominio.

L’analisi gramsciana è molto critica sul processo risorgimentale per il modo in cui si compì, ovvero senza la partecipazione attiva e consapevole dei ceti subalterni e per il dominio predatorio dell’industria del Nord a scapito del Sud agrario, non certo sulla necessità del processo storico di unificazione nazionale, nata su basi arretrate perché, detto schematicamente, la “dottrina” Cavour sconfisse la “dottrina” Mazzini.
«Nell’espressione sia pure da sergente maggiore, di Vittorio Emanuele II: “Il Partito d’Azione noi l’abbiamo in tasca” c’è più senso storico-politico che in tutto Mazzini», scrisse Gramsci.