Germano Nicolini e il “Chi sa, parli!”

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È passata alla storia come “Chi sa, parli!” l’operazione di revisione storiografica sulla Resistenza, dalle forti valenze politiche, che esplose nell’estate del 1990 a Reggio Emilia. Di che cosa si tratta? Otello Montanari ricostruì, in una lettera inviata al “Carlino Reggio”, e pubblicata il 29 agosto 1990, le vicende dei delitti e delle responsabilità che permisero (o tollerarono) tutta una serie di violenze delittuose che insanguinarono il Reggiano tra il 1945 e il 1947. In particolare, l’ex partigiano e parlamentare comunista rivelava chi potevano essere i mandanti dell’assassinio dell’ingegnere Arnaldo Vischi, direttore tecnico delle Officine Reggiane.

Delle violenze diffuse la dirigenza nazionale del Partito comunista era al corrente. In un discorso riservato tenuto a Milano davanti ai membri della direzione del Nord Italia, il 5 agosto 1945, Palmiro Togliatti, segretario del PCI, aveva richiamato gli “illegalismi” commessi in Emilia, ma anche, Luigi Longo, nel verbale della direzione dell’8 giugno 1945, aveva parlato apertamente di «germi di degenerazione nel partito di “malattia del mitra”». Ancora nel 1946, Togliatti stigmatizzava le violenze consumate in Emilia e nel reggiano in particolare. Successivamente, nel ’52, Aldo Cucchi e Valdo Magnani, poco dopo la loro espulsione dal PCI, scrissero: «Nel tumulto della liberazione i dirigenti comunisti provinciali stavano distribuendosi le cariche cittadine e non facevano nulla per consigliare, frenare o dirigere i partigiani, non mettevano alcun freno alla loro azione, preoccupandosi solo di non trovarsi direttamente coinvolti». Una testimonianza importante, perché Magnani fu segretario della federazione del PCI reggiano dopo Arrigo Nizzoli (il segretario al centro delle vicende denunciate da Montanari).

Non va però dimenticato il ruolo decisivo della Chiesa e dei carabinieri per le indagini relative al delitto di don Pessina, nel 1946, che individuarono, ingiustamente, in Germano Nicolini, Ello Ferretti e Antonio Prodi mandante ed esecutori dell’omicidio del parroco di San Martino Piccolo di Correggio. Bisogna anche ricordare che i veri esecutori (William Gaiti, Ero Righi e Cesarino Catellani), nel precesso di Perugia del 1949, confessarono le proprie responsabilità, ma furono invece condannati per autocalunnia.

Tuttavia dopo oltre quarant’anni, era necessario scardinare il silenzio di colpevoli e innocenti. La posizione ufficiale del PCI era, in sostanza, quella di fare piena luce senza alzare “strumentali” polveroni. Ma non andò così, perché l’accusa rivolta al PCI era quella di aver negato fino a quel momento ogni responsabilità nelle violenze che insanguinarono Reggio fra il ’45 e il ’47. Inoltre molti comunisti scelsero la linea della reticenza e della copertura, anche se all’epoca qualcuno denunciò che il bene del partito, l’entità astratta Partito, veniva prima delle persone in carne e ossa, come i casi emblematici e clamorosi di Germano Nicolini e di Egidio Baraldi (delitto Mirotti) stanno a dimostrare.

Montanari e il segretario del PC reggiano, Vincenzo Bertolini, per voltar pagina, scelsero la strada della “confessione” pubblica (Mike Scullin, “Carlino Reggio”, 29 agosto 1990). L’on. Mauro Del Bue ebbe una forte (e forse insperata) risposta alle accuse che aveva lanciato nell’articolo “Havel, apri gli archivi segreti delle Br” (“Carlino Reggio”, 28 agosto 1990). E con la risposta di Otello Montanari prese il via la (lunga) stagione del “Chi sa, parli”, l’invocazione che chiudeva la lettera al “Carlino”, in risposta, appunto, alle accuse lanciate da Del Bue.

Il giornalista del “Carlino”, Mike Scullin, lucidamente, sulla scorta della vicenda di Germano Nicolini – scrisse che sulla vicenda “Diavolo” «si sta costruendo adesso l’autoflagellazione del Pci, una confessione – quasi masochistica nella sua ferocia – degli errori commessi nel dopoguerra: i leader di allora anche se non tutti, tollerarono, ebbero addirittura legami con chi si macchiava di sangue. E a dirlo fuori dal palazzo non sono stavolta i soliti ‘reazionari’, ma proprio loro, gli uomini che contano».

Grazie alle porte che la “confessione” pubblica spalanca (o che abbatte) – ma che a Montanari costerà, è giusto ricordarlo, pesantissimi attacchi tanto da parte di ex partigiani quanto da esponenti del suo stesso partito – quattro anni dopo, nel 1994, l’incubo finisce. Il presidente Emanuele Medoro, della Corte d’Assise di Perugia, legge, il 9 giugno 1994, i capi d’ accusa, cita il codice, i nomi degli imputati Germano Nicolini, Ello Ferretti e Antonio Prodi e conclude: «Tutti assolti per non aver commesso il fatto».