Come ci cambierà la pandemia

Don Giuseppe Dossetti

La pandemia non è ancora finita, ma molti cominciano a chiedersi se e come ci farà diventare diversi. Credo che l’esperienza di questi anni ci farà certamente diventare diversi, o più buoni o più cattivi: sarà più difficile essere “buoni alla buona”. Prendiamo ad esempio il comandamento sul quale tutti si trovano d’accordo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Sembra banale, ma probabilmente anche chi lo proclama spesso non ci crede fino in fondo. Intanto, bisogna specificare chi sia il prossimo ed è evidente che non può essere altro che tutta l’umanità: ci è stato ricordato spesso che siamo responsabili gli uni degli altri: “Fratelli tutti”, ha titolato il Papa la sua ultima lettera enciclica. Già questo crea qualche problema, visto l’atteggiamento verso i profughi. Ma il rischio più grave nasce, quando ci si misurerà con la cattiveria, la stupidità, le paure, che certo non scompariranno. Avremo la santa ostinazione di cercare il bene comune, nonostante tutto?

Dovremo riflettere sulla motivazione di un impegno costante e fattivo verso l’altro uomo, chiunque egli sia. Il grande filosofo Kant sosteneva che l’amore per il prossimo è un “a priori”, cioè qualcosa di connaturato, insito nell’uomo, come la facoltà di vedere o l’attrazione per il bello. Oggi, non siamo più così ottimisti. Vale allora la pena confrontarsi con la parola di Gesù, che leggiamo in questi giorni. Quando uno scriba gli chiede quale sia il comandamento più grande, egli risponde: “Amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Poi aggiunge, indicando un legame necessario: “Il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12,30-31). Che il primo comandamento sia strettamente connesso col secondo, sembra cosa ovvia. L’apostolo Giovanni scrive: “ Se uno dice: Io amo Dio, e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Abbiamo invece qualche esitazione di fronte all’affermazione reciproca, che cioè l’amore per il prossimo sia fondato necessariamente sull’amore per Dio. Dobbiamo riconoscere che anche persone non credenti possono dare esempi molto belli di generosità e impegno per il prossimo. Ma, di fondo, una certa visione della “laicità” rende timidi i credenti verso qualcosa che invece è il fondamento della loro vita.

Penso che ci sia un modo, per parlare laicamente e con rispetto del fondamento dell’amore, inteso come azione, solidarietà, compassione: un amore, che diventi anima della politica e dell’economia: troppo spesso, queste dimensioni dell’uomo e della società sembrano viaggiare per strade proprie, in nome del “realismo”, che spesso è paura e compromesso al ribasso.

Per un cristiano, l’amore è un debito. “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”, così afferma Giovanni (1Gv 4,10), tirandone subito la conseguenza: “Se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”.

C’è una bella immagine, che la Bibbia usa per descrivere il rapporto tra Dio e Israele e, attraverso di esso, con tutta l’umanità: l’idea di “alleanza”. Si tratta di un rapporto voluto con divina ostinazione, a cominciare dalla paradossale chiamata di Abramo: “In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Tale rapporto rimane, anche quando l’amato è infedele o magari un po’ ottuso (come il profeta Giona), ed è un legame appassionato, che conosce l’indignazione, ma mai il ripudio. Abbiamo bisogno di un amore così, che si faccia carico della fragilità e dei limiti dell’interlocutore. “Quante volte dovrò perdonare? Fino a sette volte?”, chiede a Gesù Simon Pietro, pieno di buona volontà. Gesù gli risponde che la cifra va elevata a settanta volte sette (Mt 18), perché questo è esattamente ciò che il Dio, che egli chiama Padre, fa nei nostri confronti.