‘Chi sa parli’, il Pci fa i conti con la storia

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Il “Chi sa, parli!” dell’on. Otello Montanari del settembre 1990 può essere interpretato e iscritto, senza forzare gli avvenimenti, come uno dei passaggi obbligati del nuovo partito in fieri (la Cosa) per diventare, a tutti gli effetti, forza post-comunista, socialdemocratica o laburista che sia. Insomma, un qualche cosa d’altro da ciò che era.

«L’esigenza di chiarezza assoluta – afferma Montanari a Stefano Morselli, sull’“Unità” del 31 agosto 1990 – è tanto più vera quanto più affermiamo con nettezza i valori che da tempo ci ispirano e quando ci prepariamo a costituire una nuova forza politica che raccolga e sviluppi il meglio di quei valori». E di Fausto Giovanelli, (ultimo) segretario del Pci reggiano: «C’è in tutto questo una lezione utile per il vecchio e ancor di più per il nuovo partito: convenienza politica e senso della storia non possono scavalcare giustizia e verità», parole che esprimono la nuova etica e la nuova morale del partito “in costruzione”. E sempre Giovanelli, in una recente memoria, afferma: «Il PCI reggiano aveva nelle sue matrici sia Onder Boni che Valdo Magnani, (segretari di Federazione che rappresentavano anime diversissime ma entrambe molto forti) Ma sempre più si riconosceva nel secondo. Con l’89 il rischio di una più grande deflagrazione tra tradizione e uno nuovo scenario era ed è stato molto alto. Tutta la vicenda del “Chi sa parli” – depurata da tutti gli aspetti personalistici, di cronaca e mediatici – di fondo è stata questo. Non un “giallo” ma una vicenda politica a tutto tondo. E in parte iscritta nella storia delle cose. Così andrebbe interpretata».

Il 1989 è stato l’anno dell’inizio della svolta del Partito comunista italiano che si compirà nel corso del XX congresso del febbraio 1991 – per Reggio Emilia la scelta coincise con il XXII congresso provinciale, una differenza dovuta al fatto che a Reggio si tennero, negli anni precedenti, due congressi straordinari – con il cambiamento del nome (e di natura, trasformazione già avvenuta nei fatti da molti anni) del Partito democratico della sinistra (Pds). Una consistente minoranza vi si oppose dando vita, nel dicembre dello stesso anno, al Partito della Rifondazione comunista.

È utile soffermarsi brevemente sui vari passaggi “eterodossi” che portarono al cambiamento del nome del partito. Achille Occhetto, segretario del Pci, al Comitato centrale successivo la Bolognina (20-24 novembre 1989), spiega la proposta del cambiamento del nome sostenendo che è coerente con la linea del XVIII congresso (Roma,18-22 marzo 1989), in cui si era deciso superare la cultura politica del “vecchio Pci”.

Giuseppe Chiarante, dirigente del Pci, spiega diversamente la «cosiddetta svolta della Bolognina». «L’annuncio – scrive – della decisione di voler proporre l’abbandono del nome “comunista” e la trasformazione del Pci in una nuova e ancora indeterminata “formazione politica” (“la cosa”, come allora fu di moda dire) venne dato da Achille Occhetto, senza aver consultato né la Direzione né la Segreteria del partito, esattamente tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, in un discorso a una manifestazione di ex partigiani svoltasi il 12 novembre 1989 alla Bolognina, un quartiere di Bologna. Nella riunione del Comitato centrale svoltosi tra il 20 e il 24 novembre successivi la proposta di Occhetto, e la conseguente convocazione di un congresso straordinario, furono approvate con 219 voti favorevoli, 73 contrari e 34 astenuti. Nel Congresso, che si tenne in marzo a Bologna, la svolta ebbe il consenso di circa i due terzi dei delegati». (Chiarante, 1996)

Un metodo “eterodosso”, in ogni caso, che sarà alla base dell’“operazione verità”, il “Chi sa parli”, sugli omicidi del dopoguerra a Reggio Emilia. Un’operazione di revisione storiografica sulla Resistenza, dalle forti valenze politiche, esplosa nell’estate del 1990 – in seguito alla lettera inviata il 29 agosto dall’ex partigiano e parlamentare e dirigente comunista reggiano Otello Montanari al “Resto del Carlino (Reggio) –, un’autentica bomba che ha scosso il mondo politico e le associazioni partigiane e che ha dato inizio a una “nuova” stagione della storiografia resistenziale e degli studi sulle origini della Repubblica.

L’articolo “Rigore sugli atti di “Eros” e Nizzoli” scritto di Otello Montanari ha fatto emergere una situazione in movimento già da tempo che non attendeva che tempi giusti per deflagrare. Altrimenti non si capirebbe come mai, per esempio, i due volumi scritti da Egidio Baraldi – “Nulla da rivendicare. L’infanzia la Resistenza gli anni bui della persecuzione” (1985) e “Il Delitto Mirotti. Ho pagato innocente. L’omicidio il processo il carcere” (1989) – non avessero montato un’onda così alta. Eppure in quei volumi si toccavano tasti altrettanto delicati. Oppure la questione degli scomparsi fascisti a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nelle ultime settimane di guerra e nelle prime post-Liberazione sollevata alla fine dell’aprile ’90 – quindi, solo pochi mesi prima – da un figlio di uno degli scomparsi, sia rimasta, sì, diversi giorni sulle pagine locali ma senza eco nel resto d’Italia, come accadrà per la lettera di Otello Montanari.

Le cause vanno ricercate nella particolare congiuntura storico-politica che il passaggio del decennio stava vivendo e, strettamente legata ad essa, nella fonte autorevole di quelle ammissioni.
Mike Scullin racconta nel suo articolo del 29 agosto, “Il Pci fa i nomi di chi li copriva”, quale sia stata la “genesi” dello scritto di Montanari. Significativo l’incontro tra l’ex onorevole e il massimo dirigente del Pc reggiano di allora che conferma che la strada scelta per voltar pagina è la “confessione” pubblica. «L’onorevole – scrive Scullin – è entrato nell’ufficio di Fausto Giovanelli, segretario del Pci, alle due del pomeriggio e gli ha mostrato le tre cartelle dattiloscritte. “Mi ha detto che a leggere è rabbrividito – ricorda poco dopo Montanari – è sostanzialmente d’accordo, apprezza il coraggio. Bisogna voltar pagina, chi ha qualcosa da dire parli”».
Il 12 novembre 1989 alla Bolognina (sezione bolognese del Pci) Occhetto, come abbiamo già ricordato, aveva lanciato la proposta di cambiare nome al partito. Da allora era iniziato un aspro confronto fra i fautori del “sì” e quelli del “no”: per semplificare definiamo i primi occhettiani mentre i secondi sono legati alle figure di Cossutta e Ingrao, una strana coppia davvero.

L’uscita pubblica di Otello Montanari rientra, sicuramente, nella lotta fra i due schieramenti. Ovvero da parte dei fautori del cambiamento, o se si preferisce del “de profundis” del vecchio partito comunista, esisteva la necessità di sbloccare il sistema politico italiano attraverso una reale resa dei conti con tutti i punti oscuri della storia comunista a partire proprio dagli anni della fondazione della Repubblica. Secondo i sostenitori del “no”, viceversa, della storia del Pci e del suo patrimonio politico e culturale non c’era nulla da “rinnegare”, ma, caso mai, da rivedere criticamente quegli episodi palesemente in contrasto con i principi del socialismo e della libertà dei popoli all’autodeterminazione. Entrambi gli schieramenti, a parte i cossuttiani, nutrivano per la storia passata dell’Urss un comune senso critico.

L’ascesa al potere di Gorbaciov, nel 1985, aveva instillato nel partito la speranza di una possibile autoriforma dell’“orso” sovietico in senso squisitamente democratico e di conseguenza aveva riattivato nel Pci, ma non solo, energie (illusorie) che la storia dell’Urss fino ad allora avevano spento. In altre parole i germi posti dalla rivoluzione d’Ottobre non erano sterili e le riforme gorbacioviane ne erano la prova, per cui si sarebbe potuto cambiare nella continuità. Ma poi accadde ciò che accadde. E il Pci, secondo alcuni storici e politologi, aveva perduto del tempo prezioso rimandando l’ineluttabile cambiamento che i fatti storici man mano suggerivano e/o imponevano dopo il costante declino successivo al 1976. Anno importante anche per un altro motivo, ai fini del nostro discorso: nel 1976 alla segreteria del Psi approdò Bettino Craxi, che inaugurò una stagione di aperta ostilità verso il Pci, mentre quest’ultimo giunse ad accusare Craxi, un indubbio politico energico che fece del “decisionismo” la sua bandiera, di essere una “minaccia alla democrazia”. Questi, in estrema sintesi, i rapporti fra Pci e Psi che percorsero tutti gli anni Ottanta e che si risolsero, si può dire, solo per cause extrapolitiche, cioè giudiziarie. Così nel 1990 con il Pci alle prese coi problemi di cui abbiamo detto e il Psi che puntava all’“Unità socialista” che avrebbe dovuto (e voluto) inglobare il Pci, si può capire il significato che assunsero le “rivelazioni” di Otello Montanari ex partigiano, ex deputato comunista e presidente dell’Istituto Cervi (dal quale fu poi costretto a dimettersi).

Un guerra ideologica che si rifletterà ancora sui mass media con uno spregiudicato uso pubblico della storia, e parliamo del settembre ’90, oltre quarant’anni dopo e con le macerie del muro ancora fumanti. È come se le “confessioni” di Montanari avessero rotto una sorta di vaso di Pandora che contenesse tutte le “malefatte” del Pci. Se nel vaso di Pandora solo la Speranza è rimasta a disposizione degli uomini, nel nostro caso il fatto nuovo e positivo che il “Chi sa, parli” ha prodotto è stata la rottura di certe, diciamo, inibizioni che impedivano di accostare il termine violenza all’evento Resistenza. Un libro per tutti, il saggio di Massimo Storchi, “Combattere si può, vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra”.

La “confessione” di Otello Montanari fu autorevole ed espresse la volontà di buona parte del gruppo dirigente del Pci reggiano (i dirigenti nazionali all’inizio sembrarono defilarsi) di segnare con un atto significativo il passaggio a una nuova fase della storia della sinistra comunista italiana che la Bolognina aveva annunciato. Che poi l’eco della parole di Montanari sia andata oltre Reggio Emilia è da imputare, come si è detto, alle particolare congiuntura storico-politica che ha amplificato a tutto il territorio nazionale un’iniziativa che appariva ai promotori, probabilmente, non degna di simile pubblicità. Le parole di Giovanelli, riportate dalla “Gazzetta di Reggio” (4 settembre) sono illuminanti: «A Reggio molte cose dette da Montanari sono sempre state risapute, scritte e riscritte, tranne qualche elemento. Per questo non si poteva immaginare il clamore a livello nazionale che avrebbero suscitato», sottovalutando, forse, il fatto che il Pci fosse ancora considerato un corpo anomalo o estraneo alla democrazia occidentale e in particolare italiana, ritenendo, al contrario, che fosse del tutto assodata la sua completa aderenza alla pratica democratica occidentale.

“Non si processa la storia” è il titolo dell’articolo di Umberto Bonafini, direttore della “Gazzetta di Reggio”. Il fatto che certe ammissioni venissero proprio dall’interno del Pci, attraverso la penna di Montanari, secondo Bonafini è un fatto se non irrilevante certamente secondario: «perché quelle cose le avevano scritte sia dei comunisti che degli anticomunisti e poi perché sono state scritte in sentenze di tribunali della Repubblica». Ma poi precisa: «non considero solo Otello Montanari responsabile della querelle insorta».

È venuto a mancare, insomma, scrive il direttore della “Gazzetta” «quell’equilibrio che è tipico della lettura della storia e che qualifica, in senso culturale, il rapporto fra storia e politica», un equilibrio che non si poteva chiedere all’ex partigiano «ma che avevano ed hanno il dovere di mostrare coloro i quali guardano ai fatti ben oltre i confini degli interessi personali o di parte». «Montanari – conclude Bonafini – ha sicuramente sbagliato nella sostanza e nel metodo; ma hanno altrettanto sicuramente sbagliato e forse ancora di più coloro i quali, approfittando del suo ingenuo operato, hanno pensato e pensano di processare la storia dell’Italia democratica».

Quello che è accaduto, in sostanza, è stata la sovrapposizione e l’intreccio perverso di storia e politica.
A rileggere oggi, la lettera dell’on. Otello Montanari, non si capisce immediatamente come possa aver innescato un simile putiferio. Lo stesso Montanari in alcune dichiarazione rilasciate alla “Repubblica” del 31 agosto 1990, si mostra stupito da tanto clamore: «Non ho scritto nulla che non fosse noto. Ho solo messo assieme i pezzi», e «Tutti sapevano, io l’ho scritto».

Il contenuto della lettera dell’ex partigiano, non rivelerebbe, a detta di numerosi opinionisti e politici dell’epoca, nessun mistero. Tuttavia, essi lasciavano chiaramente intendere che i delitti e la violenza erano geneticamente connaturati all’ideologia che il Partito comunista rappresentava, conseguenza della supposta doppiezza togliattiana [si veda in proposito R. Martinelli, 1995].

Di che cosa si tratta? Otello Montanari ricostruisce le vicende dei delitti, in particolare dell’assassinio dell’ingegnere Arnaldo Vischi, direttore tecnico delle Officine Reggiane, e delle responsabilità che permisero (o tollerarono) tutta una serie di violenze delittuose che insanguinarono il Reggiano tra il 1945 e il 1947. Il giorno 31 agosto 1990 sarebbero stati esattamente quarantacinque anni dall’assassinio dell’ingegnere Vischi, «Il primo e più grave delitto del dopoguerra», direttore tecnico delle Officine Reggiane, già da prima della guerra.
Il cadavere fu rinvenuto la mattina del 1° settembre 1945. Un primo tabù era stato infranto: il delitto Vischi non fu un delitto fascista come dichiarò l’allora segretario comunista Arrigo Nizzoli, ma fu commesso da «persone iscritte al Pci». Un argomento, la violenza, che il periodico dei partigiani, il “Volontario della Libertà”, non aveva neppure sfiorato in precedenza e che anche successivamente affronterà con molta cautela. Solo Osvaldo Salvarani, comandante delle Brigate partigiane reggiane, in un articolo pubblicato dal periodico dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, intitolato significativamente “Tradimento” (7 ott. 1945), condannava senza appello le violenze e gli omicidi compiuti da partigiani.

E la lettera dell’ex partigiano al “Carlino Reggio” – per tornare nel seminato – fu la miccia che diede il “la” a una polemica violentissima, sul ruolo del Pci nella Resistenza e nella storia dell’Italia repubblicana. Il tema non otterrà il giorno immediatamente successivo le prime pagine di giornali e televisioni locali e nazionali ma una volta conquistata la manterrà per parecchi giorni, continuando poi a “bruciare” per buona parte del mese di settembre. L’acme è raggiunto nei primi dieci giorni di settembre, periodo preso in considerazione per monitorare l’effetto mass mediatico del “Chi sa, parli!”.

In realtà, data la materia altamente infiammabile, periodicamente e in coincidenza di ricorrenze storiche e/o avvenimenti particolari, i temi legati al periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 e all’immediato dopoguerra, protagonista il Pci, tornano agli onori della cronaca storico-politica, venata di “nera”.

Il settembre ’90, invece, andò ben al di là dell’ambito locale, coinvolgendo i mass media nazionali. Ci pare che non si sia lontani dalla verità nell’affermare che mai furono raggiunti livelli d’impatto massmediatico così intensi ed estesi come quelli toccati alla fine di quell’estate*.

Il giorno precedente il “fatidico” 29 agosto 1990 del “Chi sa, parli!”, sempre il “Carlino Reggio” (28 agosto 1990) titola un articolo, sotto la voce della neo rubrica: “Violenza politica”, “Havel, apri gli archivi segreti delle Br”, nell’occhiello Del Bue chiede di far luce su “desaparecidos” e terrorismo e nel catenaccio La proposta alla commemorazione di Umberto Farri a Casalgrande. Scheletri reggiani in Cecoslovacchia. È con esso, se vogliamo prendere una data di inizio, che prende il via la (lunga) stagione del “Chi sa, parli”, l’invocazione che chiude la lettera di Otello Montanari al “Carlino” inviata in risposta alle accuse di Del Bue e pubblicata il 29 agosto, il giorno successivo all’articolo sopracitato.

La lettera di Otello Montanari avalla, più o meno indirettamente, la tesi che all’interno del Pc reggiano ci fossero due linee, una democratico-riformista e l’altra stalinista e violenta, che non aveva abbandonato i metodi della lotta armata. «Per quel delitto [dell’ing. Vischi] – scrive Montanari – che innescò la spirale dell’odio e delle connivenze, per gli incredibili risvolti connessi ai sequestri Donelli e Riccò, furono inquisiti e processati Arrigo Nizzoli, già segretario della Federazione comunista reggiana fino all’inizio del 1947, Ferrari Didimo “Eros”, già Commissario delle formazioni partigiane della montagna, segretario provinciale dell’Anpi, ed altri ex dirigenti della lotta di liberazione, agenti i quali, anziché regolarsi secondo le leggi vigenti per la funzione di polizia accettarono di comportarsi come gli suggerivano “Eros” o Nizzoli che erano dirigenti politici. Ci furono certamente strumentalizzazioni contro il Pci e contro la Resistenza, questo non va mai dimenticato, ma ci furono pure reticenze e coperture da parte di alcuni dirigenti del Pci … Non fu tagliato, sin dal primo momento, quel cordone ombelicale che poteva tirare nuovi delitti, nonostante la fermissima ripetuta condanna, fatta anche a Reggio Emilia il 25 settembre 1946, dallo stesso Palmiro Togliatti».

«La discussione sul ruolo di “Eros” e Nizzoli – prosegue Montanari – va riaperta con rigore anche se può dispiacere perché furono antifascisti che pagarono con anni di carenze e sofferenze, ma procurarono con alcuni atti conseguenze e ferite molto gravi alla democrazia, al consorzio umano, al Pci … Si trattava certamente di personalità che portavano avanti la “doppia linea”. … Larga parte del gruppo dirigente reggiano nel Pci non fu però sufficientemente coerente e risoluto nello sradicare ogni forma di eversione».
La prima era rappresentata da Valdo Magnani, Aldo Magnani, dal sindaco della Liberazione Cesare Campioli, mentre della seconda ne abbiamo accennato poco sopra.

Sulla figura, in particolare, di Didimo Ferrari “Eros” bisogna registrare anche una voce diversa. Antonio Zambonelli, direttore dell’Istituto storico della Resistenza, sull’“Unità” dell’8 settembre 1990, afferma: «E per quanto riguarda militanti comunisti da tempo scomparsi – come Eros – sulle cui spalle oggi troppe colpe vengono caricate prima dei necessari approfondimenti della ricerca. Dovremmo sapere ascoltare anche la sua voce, sia pure a 32 anni dalla morte che lo colse dopo molte amarezze, in età di 47 anni». E ancora Zambonelli, in uno studio dal titolo “Il dopoguerra reggiano nelle carte segrete di Eros”, pubblicato nel dicembre del 1990 sulla rivista dell’Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia “Ricerche Storiche”. Scrive: «Didimo Ferrari, Eros, è stato uno dei fantasmi “negativi” evocati nel corso delle polemiche settembrine sul dopoguerra reggiano e, più in generale, sulla Resistenza. Gli si attribuiscono colpe per le quali fu perseguitato e condannato contumace. Con la documentazione inedita che pubblichiamo in questo “dossier” crediamo di poter fornire un contributo alla conoscenza delle vicende reggiane negli anni del post Liberazione e del ruolo che in quelle vicende ebbe Eros».

Sulla questione della “doppia linea” e di un gruppo dirigente diviso, il fondo di Umberto Bonafini, direttore della Gazzetta di Reggio, dal titolo “Gli innocenti in galera e i colpevoli fan carriera”, che comparirà il 31 agosto, rifiuta questa divisione fra buoni e cattivi e dà voce a un comune sentire nei confronti di colui che aveva lanciato l’appello “Chi sa, parli”. «C’è chi divide il Pci dell’epoca in buoni e cattivi: i cattivi erano Nizzoli e compagni, i buoni Valdo Magnani, Campioli ecc. Non c’è una riga sulla stampa dell’epoca in cui Magnani, Campioli ed altri “buoni” abbiano sconfessato mandanti e assassini dell’epoca … Chi oggi si atteggia a verginella, non dimentichiamolo mai, si schierò dalla parte di coloro che schiacciarono il “pidocchio” Magnani, allogato nella criniera del “cavallo” Pci di allora. Non solo: ma avendo militato e vissuto da sempre all’interno della parrocchia comunista doveva, amore o forza, conoscere i segreti della sagrestia».

Non è superfluo ricordare le riflessioni che nel ’52, all’indomani della loro uscita dal Pci (seguita dall’espulsione), Aldo Cucchi e Valdo Magnani affidarono allo scritto “Perché entrammo nel P.C.I. e perché ne siamo usciti”. Esse sono una testimonianza coeva e di prima mano (Magnani divenne segretario della federazione del Pci reggiano dopo Nizzoli) ai fatti, che ci restituisce il clima di quegli anni. Scrivono «Nel tumulto della liberazione i dirigenti comunisti provinciali stavano distribuendosi le cariche cittadine e non facevano nulla per consigliare, frenare o dirigere i partigiani, non mettevano alcun freno alla loro azione, preoccupandosi solo di non trovarsi direttamente coinvolti».

Affermazioni pesanti, ma che la revisione dei processi Nicolini e Baraldi e la lettera di Montanari hanno confermato.

Montanari intervistato dall’“Unità”, si difende dall’accusa di essere stato in quegli anni “omertoso” (Egidio Baraldi, accusato del delitto del capitano Mirotti avvenuto nell’agosto 1946, e poi assolto nel 1999, non si periterà dal ricordarglielo), come la famosa scimmia che non vede, non sente e non parla. Ma qui non interessa più di tanto il personaggio, interessano, invece, i fatti storici che restano inequivocabili. Certo è che metodo democratico e via rivoluzionaria (o violenta) al socialismo erano un intreccio complesso all’interno del Pci non facilmente dirimibile come un nodo gordiano, con un colpo netto. Se fu il primo a prevalere lo si deve, indubbiamente e per semplificare, alla linea scelta da Togliatti – qualcuno direbbe impostagli da Stalin – un’interpretazione inesatta perché da Mosca, con l’avvallo anche di dirigenti italiani, era partito il tentativo di rimuoverlo dall’Italia per promuoverlo segretario del Cominform (che aveva sostituito la III Internazionale sciolta nella 1943) – attento agli equilibri mondiali durante e dopo la guerra.

Carlo Giorgi sul “Popolo”, organo della Dc, del 1° settembre 1990, introduce un altro tema sensibile, scrive: «Lasceremo naturalmente agli storici la ricostruzione e il giudizio su quegli anni [del secondo dopoguerra] … Ma Franceschini, Pelli, Gallinari e tanti altri brigatisti che alla fine degli anni ‘60 scelsero la lotta armata, avevano alle spalle i loro maestri. Se fossi mio figlio – dichiarò il padre di Franceschini nel libro “Mai più senza fucile” – farei esattamente quello che ha fatto lui. È la vecchia anima del Pci che si ritrova nella prospettiva rivoluzionaria e dell’avvento della classe al potere e questo disegno significava, anche dopo gli eccidi, trovare comunque un nemico, un avversario da eliminare. Altroché riformismo! La cultura della violenza, l’invito alla lotta armata nascono dagli esempi, dalle sollecitazioni, dalla storia e dalle esperienze del Pci».

«Il problema è capire come era la situazione dal giorno della Liberazione al massimo al 31 dicembre 1947, al momento dell’approvazione della nuova carta costituzionale». Sono le parole che il dirigente comunista Giannetto Magnanini scrive sull’“Unità” Reggio del 29 agosto, (Reggio non è mai stata capitale della violenza. Attenzione ai polveroni!), per rispondere a Mauro Del Bue (“Havel, apri gli archivi segreti delle Br”, Carlino 28 agosto), e ricordare che, fin dall’aprile precedente, l’Istituto storico della Resistenza, a seguito di una furiosa campagna massmediatica “strapaesana” scatenata da una lettera di un figlio di uno dei ventisette fascisti scomparsi a Campagnola tra le ultime settimane di guerra e il dopo Liberazione, aveva proposto a Provincia e Comuni un programma di studi sul periodo post-Liberazione.

Nonostante questi tentativi di “spiegare” è l’eco della lettera di Montanari che catalizza l’interesse generale.
L’on. del Bue ha avuto una forte (e forse insperata) risposta alle sue accuse. L’allora giovane deputato socialista nella commemorazione di Umberto Farri di alcuni giorni prima, aveva indicato nella Cecoslovacchia la meta strategica di fuga prima di ex partigiani inseguiti da mandati di cattura per i delitti commessi e poi di brigatisti rossi. E senza mezzi termini aveva accusato ambienti comunisti reggiani di essere non solo i mandanti dell’omicidio del sindaco di Casalgrande, Umberto Farri ucciso il 26 agosto 1946, ma anche di altri delitti commessi in terra reggiana fra il ’45 e il ’47.

Stranamente la “Gazzetta di Reggio” non assegna un grande rilievo alla lettera di Montanari, pubblicata come detto dal “Carlino Reggio” – anche se il fondo di Bonafini del giorno successivo è significativo in proposito – affidandosi alle dichiarazioni di Fausto Giovanelli, segretario del Pc reggiano, per il commento sull’omicidio Vischi e sui fatti di sangue del dopoguerra. Così titola, citando una frase di Giovanelli, “Sul delitto Vischi non spetta al Pci cercare la verità”. Il giorno dopo sullo stesso quotidiano il segretario comunista si lamenterà che il titolo non corrispondeva al suo pensiero. Interessante (e un poco cifrata) è la risposta di Bonafini: «Capisco che, dopo essere stato tirato in ballo in questa vicenda, ogni parola “faccia difetto” per il segretario del Pci. Ma non dia la colpa ai giornali. Si guardi piuttosto attorno a sé in via Toschi ». Bonafini sembra dire che le serpi sono sempre in seno, mai fuori.

Il “Carlino Reggio” diretto da Gigi Zerbini pubblica uno scritto di Vincenzo Bertolini, già segretario “migliorista” del Pc reggiano e, all’epoca, vicepresidente regionale della lega delle Cooperative, il cui titolo – “Ci è restata una scomoda eredità” – riassume perfettamente tanto il contenuto del pezzo quanto le idee di una parte del partito che, attraverso la “Cosa”, stava incamminandosi sulla strada del cambiamento del nome in Pds.

Un’esigenza di chiarezza confermata da Giovanelli: «Ritengo che se c’è stato spazio per reticenze e doppiezze, non ve ne sia e non debba esservene più oggi nel nuovo Pci e tantomeno domani nella nuova forza che ci accingiamo a fondare».

Sulle pagine nazionali del “Resto del Carlino” l’articolo di Francesco Alberti, “Il Pci ritrova la memoria” (30 agosto), individua con lucidità alcuni aspetti significativi della questione. «Omicidi. Violenze. Fughe all’estero in paesi compiacenti (come la Cecoslovacchia). Processi pilotati o comunque condizionati da testimonianze spesso interessate. Sentenze senza un colpevole. Colpevoli senza colpe. Il Pci ritrova la memoria …. Ma adesso con un futuro ancora da decidere (la “Cosa”) e un presente avvelenato da concreti rischi di scissione, il Pci anche se fra mille tentennamenti (vedi il tentativo di far coesistere l’anima riformista con quella leninista), pare deciso a fare i conti con la propria cattiva coscienza».

E a conferma di ciò cita un passaggio dello scritto di Vincenzo Bertolini, comparso nelle pagine reggiane: «“Nessuno di noi può considerarsi al di fuori di questa scomoda eredità. È vero, c’erano gruppi che consideravano transitoria la democrazia politica e operavano con mentalità insurrezionale”. Parole ispirate da un’improvvisa voglia di verità? In parte sì – perché dubitarne? – ma sarebbe però riduttivo non scorgere dietro a queste affermazioni precise motivazioni politiche: la voglia di uscire dalle secche della ‘Cosa’, anche a costo di rituffarsi fra orrori ed errori del passato con tutti i rischi che ne conseguono».

L’“Unità”, quotidiano del Pci, del 30 agosto accetta “laicamente” la tesi secondo la quale all’interno del Pci, subito dopo la Liberazione, la “svolta di Salerno” era ancora più nella testa e nelle intenzioni del gruppo dirigente romano che in quella dei quadri e dei militanti periferici, reggiani in particolare. Il quotidiano comunista trascura, però, un’altra questione sollevata dall’on. Del Bue e confermata per un verso dalle parole scritte da Montanari: le fughe in Cecoslovacchia di partigiani ed ex dirigenti comunisti coinvolti in quei fatti delittuosi.

È l’intervista all’on. Del Bue, rilasciata all’“Avanti!” (31 agosto) a fissare un ulteriore capo d’accusa rivolto al Pci: le relazioni più che pericolose con la Cecoslovacchia. Il sottotitolo riassume il “filo rosso” che legherebbe guerra di liberazione e terrorismo brigatista: «Da Reggio Emilia – afferma Mauro Del Bue – giungono autorevoli conferme delle azioni criminali e degli assassinii perpetrati dal Pci “parallelo” negli anni Quaranta, un partito armato di tutto punto e pronto all’insurrezione, una sorta di archetipo del “brigatismo rosso” degli anni Settanta».

Gli altri quotidiani, quelli “d’opinione”, appaiono più distaccati. E “l’Unità”? Da parte sua il quotidiano comunista, diretto da Renzo Foa, appare del tutto disinvolto verso il passato del suo partito. Nell’intervista raccolta dall’“Unità”, Fausto Giovanelli afferma «Per la verità a Reggio Emilia non è da adesso che se ne parla. I protagonisti di quegli anni non trovano nulla di particolarmente nuovo in ciò che si è scritto in questi giorni … E in questi ultimi tempi è venuta fuori con maggior insistenza, soprattutto da parte di ex partigiani condannati ingiustamente la richiesta di fare chiarezza, di dire tutta la verità».

Gli fa eco da Roma, il giorno successivo, Piero Fassino, della segreteria nazionale del Pci e incaricato di seguire i fatti di Reggio Emilia, che dichiara al termine della Direzione nazionale, «proprio dalla ricostruzione di quegli anni difficili emerge che sia il gruppo dirigente nazionale del Pci, coll’impegno diretto e personale di Togliatti, sia la stragrande maggioranza dei comunisti reggiani, si batterono con rigore per dare basi di massa alla democrazia nel nostro paese, contrastando ambiguità e doppiezze e opponendosi con decisione a qualsiasi atto che portasse la lotta politica al di fuori della legalità».

Tuttavia non tutto il partito reagì con aplomb a quelle rivelazioni. Le dichiarazioni riportate dai giornali di Giancarlo Pajetta – il “ragazzo rosso” leader storico del Pci – nei confronti dell’autore dell’“operazione verità”, furono tutt’altro che tenere. Citiamo dal “Corriere della Sera” del 7 settembre ‘90: «Pajetta: quel Montanari è proprio un pazzo. Poi si scusa» e nel sottotitolo «Chi ha sollevato il caso del triangolo della morte ci pensi prima di passeggiare per Reggio Emilia».

Il partito in realtà è lacerato.

Umberto Bonafini sulla “Gazzetta di Reggio” del 9 settembre: “L’importante è che chi vuole spartirsi le spoglie del Pci, lo faccia credere, e che la gente ci creda”. A che cosa? che «il Pci è un partito di assassini» e che «i compagni uccidevano e i dirigenti sapevano. O approvavano, o tolleravano». Per il direttore del quotidiano reggiano il tragico è che i dirigenti del Pci non sono in grado di «ribaltare o annullare» le accuse mosse al partito, alla sua storia e alla sua memoria.

Sul tappeto del conflitto politico, non bisogna dimenticarlo, c’è anche «il filo rosso che lega la cultura politica dell’ala non democratica e violenta del Pci a Reggio con la nascita delle Brigate rosse che ebbero i natali proprio in terra reggiana».

Per i dirigenti della “Cosa”, le Br non appartengono in nessun modo alla cultura della sinistra né tantomeno ci può essere una connessione.­ Alcune sfumature tra nuova e vecchia guardia ci sono. Secondo Fassino, «fra le vicende dell’immediato dopoguerra ed il terrorismo degli anni Settanta; mentre per la Iotti: «Ci sono, certamente, delle responsabilità politiche per la ripresa dell’estremismo nella nostra provincia [quella di Reggio Emilia, ndr] negli anni ’70. Ma il fenomeno delle Br è cosa ben diversa. Non dimentichiamo che queste nascono non a Reggio Emilia, bensì nella Facoltà di sociologia di Trento, in ambiente cattolico».
Questo breve accenno al tema Br-Resistenza, sollevato dal deputato del Psi Mauro del Bue, possiamo concluderlo circolarmente, ossia ritornando al delitto Vischi.

Luciano Salsi, sulla “Gazzetta di Reggio”, al termine dell’intervista al partigiano reggiano delle Fiamme Verdi, Eugenio Corezzola, liberale e tra i fondatori della “Nuova Penna”, scrive: «Ma l’omertà, allora, era sovrana ed il Pci non aveva fatto ancora quella scelta legalitaria che negli anni Settanta gli avrebbe consentito di isolare e combattere le Brigate rosse». Tout se tient.
Il “bombardamento” di notizie sui fatti di Reggio Emilia, in corso dalla fine di agosto, costringe la direzione e la segreteria provinciale e nazionale comunista a sottolineare con sempre maggior forza che il Pci vuole “chiarezza e giustizia” ma non accetta “demonizzazioni della Resistenza”, che i propri archivi sono aperti da tempo, che Togliatti combatté le «tentazioni ribellistiche e [rese] il Pci coautore della Costituzione e protagonista della storia italiana contemporanea» e che l’operazione-verità non può essere usata per la «battaglia politica di oggi. Sono queste le posizioni che Fausto Giovanelli e Piero Fassino ribadiscono nella conferenza stampa del 4 settembre, seguita alla Direzione provinciale.

Ma ll “problema” è Togliatti e la sua vita legata al Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista che ha significato, secondo tutto un ceto politico e intellettuale, sudditanza ai voleri e ai capricci di Stalin.

Bisogna però segnalare che uno storico di vaglia, vicino al Pci, Renzo Martinelli, pubblica sull’“Unità” il testo di un discorso riservato di Togliatti tenuto a Milano davanti ai membri della direzione del Nord Italia il 5 agosto 1945 in cui il leader del Pci “invitava a prendere posizione contro ogni sopravvivenza del movimento partigiano [sic]”. Martinelli scrive che uno degli elementi più interessanti di quel discorso è «il richiamo di Togliatti agli “illegalismi” commessi in Emilia, che fa seguito a considerazioni e rilievi analoghi contenuti in verbali precedenti e successivi». E Luigi Longo ha parole di condanna verso quelle violenze.

Il problema vero però è un altro e lo indica Adriano Vignali, esponente della sinistra reggiana, sulla “Gazzetta di Reggio”, in cui afferma che «il Pci ha sbagliato nel glissare e non affrontare direttamente questi problemi».
Una riflessione storico-culturale (e politica) intorno a queste questioni prova a imbastirla lo storico emiliano Luciano Casali: «Da almeno 15 anni … non si è stati promotori di ricerche sulla storia contemporanea e non si è sollecitato o aiutato ad affrontare temi “difficili” e “scottanti”. Che la Resistenza possa essere considerata anche guerra civile, è argomento sul quale per troppo tempo non è stato facile intervenire o riflettere. Nelle a volte retoriche celebrazioni del 25 aprile, nessuno sembrava mai aver considerato che la guerra non era finita, né poteva finire, al preciso scoccare di quella data fatidica, soprattutto là dove la lotta di liberazione era stata combattuta aspramente contro un nemico anche interno».

Resta il fatto che il tema è sempre caldissimo.

* Nel solo mese di settembre comparvero 1.321 articoli (più o meno significativi), un’onda partita alla fine d’agosto e culminata il 7 settembre con 119 articoli, così disaggregati secondo le testate (e bisogna considerare che non siamo riusciti a visionare tutta la stampa nazionale e la stampa estera, che sappiamo essersi interessata al “Chi sa, parli”):
Avanti! 79, – Avvenimenti (settimanale), 9 – Avvenire, 39 – Corriere della Sera 64 – Epoca (settimanale), 8 – L’Espresso (settimanale), 11 – Europeo (settimanale), 7 – Famiglia cristiana (settimanale), 4 – Gazzetta del Mezzogiorno, 18 – Gazzetta di Reggio, 149 – Il Giornale, 108 – Il Giorno, 85 – La Libertà (settimanale), 8 – Il Manifesto, 50 – Il Messaggero, 18 – Notiziario Anpi (mensile), 2 – Osservatore Romano, 3 – Panorama (settimanale), 13 – Il Popolo, 69 – Reporter (RE) (settimanale), 12 – La Repubblica, 79 – Resto del Carlino (ed. RE), 222 – Rinascita (settimanale), 13 – Il Sabato (settimanale), 6 – La Stampa, 64 – Stampa Sera, 5 – L’Umanità, 28 – Umanità Nova (Fai), 3 – l’Unità (ed. RE), 142 – Voce Repubblicana, 9.

 




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  1. Carla

    Niente si è mosso, nonostante i vari interventi. A riprova di ciò, si…ammiri il busto di Didimo Ferrari nell’atrio del municipio di Campegine. Come dire “much ado about nothing”


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