Ascensione del Signore al cielo

Il Vangelo della domenica

Ascensione del Signore al cielo, Anno C – 2 giugno 2019

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24-46-53)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».

Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Il cielo è un simbolo universale per indicare la dimensione spirituale dell’uomo, la sua “trascendenza”, ossia l’anelito ad andare sempre oltre, il suo non accontentarsi mai, la sua sete di infinito, per cui “la siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, per dirla con Leopardi, diventa uno stimolo a immaginare “interminati spazi”.

Ma non per tutti è dolce “naufragar in questo mare”: per molti il cielo è un tetto di bronzo, uno schermo invalicabile sul quale passano fantasmi che incutono orrore. Se “cielo” vuol dire speranza, quale speranza possono avere uomini e donne che perdono il lavoro e sanno che non ne troveranno mai più uno?

Per altri, il mare in cui si naufraga è quello che inghiotte le barche dei disperati. Al massimo essi non aspirano a un cielo, ma a una terra, a un luogo dove appartenere, dove avere un po’ di dignità e di pace.

Oggi può sembrare che neanche Dio aiuti. Si sa che Egli è in cielo, che il cielo è il suo trono: ma in nome suo si commettono ormai troppe violenze; oppure, dal suo Olimpo, Egli guarda le vicende umane con distacco, magari riservandosi un giudizio finale.

Oggi, per il cristiano, è un giorno di grande festa. Terra e cielo si incontrano, di nuovo è possibile uno slancio, una speranza. Gesù, che “sale al cielo”, ripristina un passaggio, la possibilità di una comunione: nuovamente, vale la pena impegnarsi e sacrificarsi, perché l’ultima parola è pienezza, è vita, è amore e gioia, quella gioia che accompagna gli apostoli a Gerusalemme, nel passo del vangelo che oggi si legge.

Tuttavia, proprio perché tutto questo non resti una bella favola, il simbolo di una nobile illusione, la liturgia odierna propone come seconda lettura la Lettera agli Ebrei (Ebr 9,24-28; 10,19-23). “L’ascensione di Gesù al cielo” viene interpretata come l’ingresso del Sommo Sacerdote nel santuario del Tempio.

Infatti il “Santo dei Santi”, il luogo santissimo del Tempio di Gerusalemme, era una cella, chiusa da una tenda, che la separava dalla parte anteriore del Santuario. Nessuno poteva varcare la tenda: su di essa erano ricamati simboli astrali, proprio per indicare l’irraggiungibile trascendenza del Dio di Israele, la sua presenza in mezzo al suo popolo e nello stesso tempo la sua inaccessibilità.

Soltanto nel grande giorno dell’espiazione, il Sommo Sacerdote entrava oltre la tenda, portando però il sangue degli animali sacrificati. Quando Gesù muore, i vangeli ci dicono che il velo del Tempio si squarcia da cima a fondo, proprio a significare che, grazie a quella morte, è aperto nuovamente l’accesso al Giardino, quello che l’angelo custodiva con la spada di fuoco. Di nuovo, Dio e l’uomo si possono incontrare e può essere saziata la sete della Samaritana, che aspira a un’acqua che toglie la sete in eterno.

È dunque il sangue ciò che permette di ristabilire l’incontro tra l’uomo e Dio.

Si potrebbe chiedere il perché. Personalmente ritengo che solo il sangue, la morte, nella sua terribile e definitiva concretezza, può togliere a questa narrazione il suo sapore di favola e, nello stesso tempo, conferirle la capacità di un’universale consolazione.

La Lettera agli Ebrei dice infatti: “Abbiamo piena libertà di entrare nel santuario (cioè nella comunione con Dio), per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso la sua carne” (10,19-21). Nessuno può sentirsi escluso; anche colui che dicesse “Non mi interessa”, o “Io sono indegno, per me non ci può essere perdono”, sa che quella porta rimane aperta per lui fino alla fine dei tempi.

Ma non solo la terra entra in cielo; oggi anche il cielo si abbassa, fino a congiungersi con la terra. La storia, ogni storia, da quella grande delle nazioni a quella piccola di ogni singolo uomo, diventa il luogo di una presenza, diventa storia sacra. Nessuna lacrima cade dimenticata, nessun gesto di bontà è inutile, nessun uomo è perduto, nessuna dignità è violata, senza che ne venga chiesto conto, senza che essa sia rivendicata da colui che è morto per ogni uomo.

Vorrei anche dire una parola, in conclusione, a chi ha responsabilità di altri uomini, agli uomini della politica e dell’economia, ai magistrati e a coloro che orientano l’opinione pubblica. Oggi, contemplando l’uomo accanto a Dio, voi riconoscete la dignità di coloro che vi sono affidati.

Essi non possono essere lo sgabello sul quale salire per arrivare a un vostro ipotetico cielo. Colui che vi ha concesso di avere un potere, grande o piccolo che sia, vi dice anche: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete ospitato, ero malato o in carcere e siete venuti a trovarmi; tutto quello che avrete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Voi avete una grande responsabilità e su di essa un giorno sarete giudicati. Nello stesso tempo, però, non abbiate paura, non cedete al pessimismo. Se vi considererete servi, servi di Dio e dei poveri, se agirete con umiltà, interrogandovi davanti alla vostra coscienza, quel poco che le vostre forze riescono a fare sarà moltiplicato dal Padrone. Non cercate il consenso degli uomini, ma quello di Dio.