Il cardinal Martini, la “stanchezza della Chiesa” e la conversione del cuore

Don Giuseppe Dossetti

Centodiciannovesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra

In questi giorni ricorre il decimo anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini. Ricordiamo la sua ultima intervista, nella quale parlava della stanchezza della Chiesa e del suo “ritardo di duecento anni”. Rileggendola, mi ha colpito l’insistenza sulla conversione del “cuore”, cioè del centro della persona, che orienta i suoi modi di pensare e di operare. Tale conversione nasce dall’incontro con la sacra Scrittura: “La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti. Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo”.

Questo è l’atteggiamento di Gesù. Un giorno gli chiesero: “Sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,23). Possiamo immaginare che l’interlocutore sia un moralista, indignato per i vizi dei contemporanei; oppure potrebbe trattarsi di un pessimista, ferito dallo spettacolo della corruzione e dalle varie idolatrie. In ogni caso, la percentuale dei salvati rimarrebbe molto bassa.

La risposta di Gesù consiste anzitutto nel riportare l’interlocutore a pensare a se stesso, prima di distribuire patenti e scomuniche: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta!”. Ma poi invita alla larghezza di cuore, a riconoscere l’opera di Dio anche nel terreno sassoso o nelle siepi spinose: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi”.

Questa larghezza di cuore ha il nome dell’umiltà. Io ho visto in me stesso il rischio dell’eccesso di sicurezza per le proprie idee. Si diventa intolleranti dei limiti altrui, le proprie durezze vengono considerate coerenza; il giudizio sugli altri diventa l’arma per considerarsi dalla parte giusta. Ma, soprattutto, ci si sente in diritto di fronte a Dio, il che è l’idolatria peggiore. Non dimentichiamo che proprio dall’idolatria nasce la violenza.

La campagna elettorale non è il momento migliore per fare questi discorsi. Tuttavia il richiamo all’umiltà vale per tutti e in ogni occasione. Per esempio, è sempre attuale la parola di Gesù: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (Mt 7,3).

Sottoponiamoci alla fatica del dubbio. Ci può confortare una frase di Martin Lutero. Egli disse che più diventava vecchio, più diminuivano le sue sicurezze, mentre aumentava la sua certezza. Mi pare molto bella questa distinzione tra sicurezza e certezza. La sicurezza viene da noi, dalle ricchezze materiali o spirituali che possediamo. La certezza viene da Dio ed è fondata sul suo amore, che si manifesta nella croce di Gesù.

La sicurezza è selettiva. Noi mettiamo confini, stabiliamo criteri di appartenenza, ci preoccupiamo dell’ortodossia. L’altro ci dà fastidio proprio per la sua diversità. La certezza, invece, è inclusiva, proprio perché l’altro è amato tanto quanto me, con assoluta gratuità. Felice l’uomo che si sente in debito: egli non avrà mai dei nemici. Per questo, Paolo scrive: “Chi sei tu, per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare” (Rm 14,4).

Se la Chiesa avesse seguito criteri selettivi, oggi sarebbe, forse, un’oscura setta orientale. Si critica spesso la Chiesa “costantiniana”, divenuta religione di Stato, nell’alleanza tra il trono e l’altare. C’è del vero, in quest0. Ma ricordiamo anche che quella fu la grande sfida di accogliere tutti gli uomini, “dall’oriente all’occidente”. Questo avvenne perché l’appartenenza alla Chiesa non venne considerato un diritto, ma un dono, da condividere con ogni uomo. Cerchiamo di essere all’altezza dei nostri padri.