Papa e discepolo

don Giuseppe Dossetti Polveriera

Duecentotrentesima lettera alla comunità al tempo della conversione

 

Hanno chiesto al cardinal Bagnasco, che è stato presidente della Conferenza Episcopale Italiana, se prevedeva un italiano come nuovo Papa. Egli ha risposto che la provenienza non è così importante; le caratteristiche dell’eletto debbono essere piuttosto “l’intelligenza della fede, il calore del cuore e il coraggio”. Sintesi perfetta; mi preme sottolineare che queste qualità debbono sorreggersi a vicenda, come del resto è accaduto per il primo Papa, san Pietro. Gesù risorto appare ai discepoli sul lago di Tiberiade, dopo una notte di pesca infruttuosa e riempie le loro reti. Il messaggio è chiaro: Gesù non abbandonerà la sua Chiesa, non lo terranno lontano neppure le infedeltà dei discepoli o la sproporzione tra le necessità del mondo e la piccolezza del gregge.

Però, Gesù qualcosa lo chiede, a tutti, ma soprattutto a Pietro, e quindi ai suoi successori; “Mi ami tu?”. Lo chiede per tre volte, quasi a sanare il triplice rinnegamento dell’apostolo. Certo, la terza volta, Pietro capisce e si rattrista, come è giusto che noi abbiamo ben presenti le nostre fragilità. Ma Pietro trova la risposta giusta: Signore, tu sai tutto; tu sai quanto io sia debole e non possa darti la garanzia di esser sempre fedele. Ma siccome sai tutto, sai anche che questo povero uomo ti ama. Immaginiamo il sorriso di Gesù, mentre restituisce all’apostolo il mandato: “Sii pastore delle mie pecorelle!”(Gv 21).

Si può essere pastori, anzi, si può essere cristiani soltanto se si ama Colui che ci ha amato “fino al segno supremo”(Gv 13). Fede e carità sono inscindibilmente unite. C’è una tendenza a considerare la fede come una parabola, una favola istruttiva, l’involucro simbolico di ciò che è veramente importante, la carità, il dono di sé. E’ vero: Gesù dice: “Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). Ma quella paroletta, “come”, non vuole soltanto rinviarci all’esempio di Gesù; si tratta di un “come” fondativo, come in italiano la parola “siccome”: proprio perché vi ho amato, dovete amarvi. Anzi, lo potete, perché io vi ho amato e vi amo. Scrive san Giovanni nella sua Lettera: “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”. E conclude: “Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo” (1Gv 4).

Senza la fede, la carità appassisce. Infatti, niente è più fragile della carità. Non bastano i buoni propositi, perché, anche in una giornata perfetta, arriva qualcuno che non era previsto o che con i suoi modi ci fa arrabbiare, o che,semplicemente, non si adatta ai nostri schemi e ai nostri programmi. La via della carità è obbligatoria, per la Chiesa: lo ha deciso il suo Fondatore. Ma, nello stesso tempo, in essa veniamo umiliati, perché ci mette di fronte ai nostri limiti. Come si fa a ricominciare sempre, se non siamo sorretti dalla certezza che siamo amati e perdonati settanta volte sette? Comprendiamo allora perché anche a noi, ogni giorno, viene rinnovata la domanda che Gesù rivolge a Pietro: “Mi ami?”. Essa ci consola, ci ricorda i nostri limiti, ma ci esorta ad affidarci a lui.

Comprendiamo allora perché siano importanti la preghiera, la lettura del Vangelo, ma soprattutto la Messa: siamo costantemente riportati alla fonte. Mi piacerebbe che si fosse più convinti che la parte più importante non è la predica del sacerdote, ma l “Liturgia Eucaristica”. Quando si sentono le parole “Questo è il calice del mio sangue, versato per voi e per tutti”, cresce l’amore per colui che non solamente le pronunzia, ma che incessantemente rende presente il suo sacrificio, per me e per ogni uomo.




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