Nel suo bel romanzo “L’ultima spiaggia” (“On the Beach”, 1957), Nevil Shute immagina che, dopo una guerra nucleare, le radiazioni, portate dai venti, cancellino progressivamente la vita dal pianeta; l’Australia, ultimo lembo, diviene la scena dove i protagonisti devono prendere posizione di fronte alla propria fine, che coincide con la fine del mondo. Il motto del libro è un verso di T.S. Eliot: “Il modo in cui finisce il mondo non è un rombo, ma un lamento” (“This is the way the world ends / not with a bang but a whimper”).
Anche Gesù viene chiamato a misurarsi con il destino della creazione (Lc 21): il mondo finirà, ma per una decisione di Dio, non come conseguenza della stupidità colpevole dell’uomo. La creazione porta impressa l’orma dell’eternità e solo Dio può decidere la fine. Tuttavia, il tempo porta in sé anche il dolore, l’ingiustizia, la morte; Gesù non aderisce al partito degli ottimisti a ogni costo. Egli, ai discepoli che l’interrogano, non fa sconti: “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze […] ma non è subito la fine”. Allora, perché tanto dolore e tanta angoscia?
La risposta del Maestro di Nazareth è coerente con il suo messaggio: la fragilità del mondo e dell’uomo va riconosciuta e deve ammonirlo a non confidare nella presunzione orgogliosa di chi pensa di costruire la propria eternità. Pensare alla fine dovrebbe premunire l’uomo contro l’idolatria, l’adorazione delle proprie forze. Rinunciando agli idoli, l’uomo potrà allora accogliere il Regno di Dio e la fine del tempo sarà non la morte ma l’eternità.
Tutto questo, però, non toglie importanza all’impegno dei discepoli. La comunità cristiana è pur sempre la Sposa dell’Agnello sgozzato, e non potrà stupirsi delle persecuzioni; dovrà anzi vivere il tempo della sofferenza come occasione per dare testimonianza alla propria fede. Non sarà inutile neppure l’impegno politico, come la COP 30, che si tiene in questi giorni in Brasile.
Ma non bastano decisioni e impegno, se non si riconosce l’origine del male, il cuore dell’uomo; esso è pure la sede, dalla quale viene accreditata ogni riforma. San Paolo, continuando il pensiero del suo maestro, dice: “L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rm 8,19-23).
Dunque, è l’uomo che sottopone la creazione alla caducità, ma è ancora l’uomo che rappresenta per la creazione l’opportunità di entrare, essa stessa, nella “libertà della gloria” (considerate come è bello questo concetto) dei figli di Dio. La sofferenza diventa così odìn, che in greco indica le doglie del parto: dunque, sofferenza non per la morte, ma per la vita.
Papa Francesco ricordava di frequente che l’origine della guerra è l’amore per il denaro. Lo aveva già detto Paolo di Tarso: “L’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10). La coscienza ecologica del cristiano deve partire dalla consapevolezza che l’atto politico più importante è la nostra conversione. Dovremmo anche stipulare un’alleanza con i poveri. Concretamente, se continuiamo a proporgli il nostro stile di vita, li spingeremo a una competizione con noi, foriera di grandi mali, per esempio la moltiplicazione incontrollata dei rifiuti. Diversa è invece la profonda convinzione che la creazione ci è affidata come il giardino dell’Eden, perché l’uomo lo coltivi e lo custodisca; dono, non proprietà (Gen 1,15).
Prometeo, nella mitologia greca, ruba il fuoco (cioè scienza e tecnologia) agli dei, che si vendicano aprendo il vaso di Pandora, che sommerge il mondo di miserie e dolori. Il Dio di Gesù non è un satrapo geloso, ma un padre, che ogni giorno offre una possibilità ai suoi figli, ostinati e ribelli.







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