La piazza, oggi, non è più il luogo delle decisioni politiche. È piuttosto un rito collettivo che serve a coprire un vuoto interiore. Non ci si raduna per cambiare la storia, ma per illudersi di appartenere a qualcosa, di non essere soli davanti all’incertezza del destino.
Caduti i pilastri che un tempo sostenevano la vita comune – fedi, ideologie, partiti – resta un’umanità disarmata, incapace di sopportare la nudità del proprio pensiero. L’assenza di introspezione diventa una patologia di massa: la fuga da sé stessi è la malattia silenziosa del nostro tempo.
La piazza funziona allora come un farmaco leggero, un metadone civile che attenua l’angoscia senza guarirla. Non importa se il drappo è rosso, verde, arcobaleno o palestinese: ogni bandiera diventa un simbolo di protezione, un panno steso sulle ferite invisibili.
I violenti rappresentano i casi estremi, dove il farmaco non basta più e il vuoto si rovescia in collera. Ma la grande maggioranza non cerca scontro: cerca tregua. Il corteo è una terapia di gruppo all’aperto, una confessione laica che per qualche ora allontana la solitudine. Un mondo che non crede più a niente finisce per aggrapparsi a tutto. La piazza non è più fede né rivoluzione: è un’illusione necessaria. Un anestetico dell’anima.







Il metadone sono gli smartphone, non la piazza.
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