La parabola del fariseo e del pubblicano

don Giuseppe Dossetti Centro Giovanni XXIII Reggio Emilia

Una delle parabole più famose di Gesù è quella del fariseo e del pubblicano. Tutti e due salgono al tempio a pregare, ma alla fine solo il pubblicano riceve l’approvazione divina. Si suppone che gli ascoltatori siano rimasti sorpresi, perché i farisei erano persone perbene, che osservavano la Legge; frequentavano la sinagoga e compivano opere buone. Magari, erano un po’ antipatici, con quella aria da primi della classe. Gesù dice che “avevano la presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”, anzi, alla lettera, li “consideravano un nulla”.

Ma, almeno nel confronto con i pubblicani, non potevano esserci dubbi sulla loro superiorità. I pubblicani erano dei tipacci, odiati da tutti, anche se se ne infischiavano. Lavoravano per gli occupanti e avevano lo zelo dei collaborazionisti. In più, il sistema romano di tassazione era particolarmente odioso, benché efficiente. Si fissava una cifra, che la provincia doveva versare, e la riscossione veniva affidata alle corporazioni dei pubblicani: se mancava qualcosa, costoro dovevano rispondere con le loro sostanze. Inutile dire, che i taglieggiamenti e le violenze erano all’ordine del giorno e chi ci rimetteva era soprattutto la povera gente.

Il pubblicano della parabola se la cava con poco: occhi bassi, richiesta di pietà da parte dell’Onnipotente. Non sappiamo nulla, se per caso o prima o dopo abbia cercato di riparare alle sue malefatte. Il Dio di Israele è esigente, perché chiede l’osservanza di una Legge complicata e minuziosa; poi, però, basta una lacrimuccia per intenerirlo. Non sembra giusto.

La figura del fariseo è molto facile da indagare. Su quella del pubblicano, gli interpreti non dicono molto. Tutta la storia sembra essere un’esortazione all’umiltà e il pubblicano diventa una figurina da appiccicare alla pagina delle virtù; nulla ci è detto sul cammino che lo ha portato al Tempio, a invocare misericordia. La vicenda spirituale del fariseo ci è invece ben nota, perché il Nuovo Testamento ci presenta un esempio insigne, Saulo di Tarso, che diventerà san Paolo.

In realtà, un pubblicano c’è, a nostra disposizione: è Matteo, apostolo ed evangelista, chiamato direttamente dal Maestro proprio mentre stava facendo i suoi loschi affari. Che egli abbia piantato tutto per seguire Gesù è forse il sintomo che anche in lui qualcosa stava preparando la crisi. Matteo è però molto discreto, sulla propria esperienza. Ma qualcosa trapela. C’è una paroletta di Gesù, che solo il suo vangelo riporta. Gesù si rivolge ai capi del popolo e dice: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”, perché non hanno la corazza di presunzione che avete voi e hanno riconosciuto l’ora della divina misericordia, annunciata da Giovanni il Battista (Mt 21,31). Matteo si mette sullo stesso piano della prostituta, la donna peccatrice del capitolo 7 di Luca, che molti identificano con Maria Maddalena.

Già questo è molto interessante: il pubblicano e la prostituta non diranno mai, come il fariseo della parabola: “Signore, ti ringrazio, perché non sono come gli altri uomini, e soprattutto non sono come questo pubblicano” (Lc 18,11). Affermeranno invece che gli altri sono come loro, anche se si nascondono dietro una maschera ipocrita. Quando verrà la crisi, quando le giustificazioni non reggeranno più, rimarrà in loro la certezza di essere come gli altri, questa volta in un senso diverso: uguali agli altri, perché ugualmente amati. La memoria del loro peccato non svanirà, ma essi saranno trasfigurati, come le piaghe del Risorto: non sarà il rimorso a prevalere, ma la gratitudine. “Non hanno bisogno del medico i sani, ma gli ammalati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12): con queste parole, Gesù era entrato in casa di Matteo, suscitando lo scandalo di chi voleva mantenere le differenze. Il pubblicano e la peccatrice conoscono lo slancio dell’amore senza misura. L’unguento, col quale la donna profuma i piedi di Gesù, coincide con l’abbandono dei soldi e con il banchetto di festa, vero e proprio banchetto nuziale, che si celebra in casa di Matteo.

Lo slancio della gratitudine lo riconosciamo anche nel fariseo Paolo, quando farà l’esperienza della “grazia”, del perdono immeritato. Sarà lui a trovare la parola che dichiara l’uguaglianza, anzi, l’uguale dignità di tutti. Tutti peccatori, tutti amati: “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti” (Rm 11,32).