Il Vangelo della domenica. La supplica di una madre

Il Vangelo della domenica

Centosessantacinquesima lettera alla comunità al tempo della conversione

Nei vangeli, sono raccontati parecchi miracoli di guarigione, compiuti da Gesù. Uno, in particolare, ha dei tratti molto simpatici, quasi umoristici. Gesù ha sconfinato: ha lasciato la Galilea e si trova in terra pagana, “nel territorio di Tiro e Sidone”, città notorie per la loro empietà. Una donna gli corre dietro: sua figlia è malata e lei grida a squarciagola, chiede che la bimba venga guarita. Gesù si comporta come un rabbino ortodosso, non la prende neppure in considerazione, dopotutto si tratta di una persona impura. Persino i discepoli non capiscono l’atteggiamento dl Maestro: “Falle la grazia, gli dicono, così smette di disturbarci”. A questo punto, Gesù usa un’espressione che non ci aspetteremmo dalla sua bocca, anche se è mitigata dal diminutivo: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini!” I figli, ovviamente, sono gli Israeliti, mentre era uso comune chiamare i pagani, “cani”. Ma la donna non si lascia smontare: c’è di mezzo la salute di sua figlia! “E’ vero, Signore; però i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei figli”: so di non aver nessun diritto, ma a me basta una briciolina della tua potenza e della tua bontà. A questo punto, immaginiamo il sorriso di Gesù: questa mamma ha superato l’esame. “Davvero grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”.

L’episodio descrive benissimo la libertà che una madre sente di avere persino nei confronti di Dio. Ma anche altrove c’è chi intercede per una persona cara ammalata e con molta umiltà supplica: si tratta per lo più di persone povere o emarginate, come il centurione di Cafarnao (Mt 8,5-13), un pagano, che dice a Gesù: “Io non sono degno che tu entri in casa mia, perché so che noi siamo impuri per voi”. Ma poi aggiunge: “Io sono un semplice sottufficiale, ciononostante ho qualcuno che è tenuto a obbedirmi: la disciplina militare funziona così. A maggior ragione, tu che puoi tutto, puoi guarire il mio servo”. Persino Gesù si meraviglia dell’umiltà e franchezza di quest’uomo e commenta: “In Israele non ho trovato una fede così grande”.

La malattia dell’umanità si rivela nella guerra. Le conseguenze sono quelle del servo del centurione: “Il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente”. La guerra in Ucraina è un esempio perfetto: chi l’ha scatenata, non riesce più a fermare i mostri che ha evocato. Stiamo assistendo a un’evoluzione che abbiamo visto anche nella Prima Guerra Mondiale: la mistica della vittoria. La guerra diventa una lotta tra il bene e il male, l’avversario non basta sconfiggerlo, bisogna distruggerlo. Per questo, ogni mezzo è lecito. Non solo, ma la morte è circondata da un’aura sacrale: essa è un sacrificio, i morti sono dei martiri. Il dubbio e ogni ipotesi di tregua, diventano parole proibite, perché espongono all’accusa di disfattismo. Più si procede su questa strada, meno si diventa consapevoli delle ragioni per le quali si combatte. Si sa solo una cosa: che bisogna uccidere. La patria, nome che porta in sé la tenerezza della famiglia, diventa una divinità crudele, che esige sempre nuove vittime offerte in sacrificio.

La madre pagana, che si rivolge a Gesù, non ha incertezze sulla natura della malattia che tormenta sua figlia: “Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Lei ha trovato però il rimedio: la supplica, la preghiera che non si stanca, che diventa persino quasi sfacciata. La sua libertà nasce dalla sua umiltà, dal riconoscere di non avere nessun diritto. Ella non conosce nessuna medicina, ma conosce il medico.

Quale madre può intercedere oggi per un’umanità così profondamente ammalata? Penso che dovrebbe essere la Chiesa e credo che lo sia. Ma esistono certamente altre persone che umilmente supplicano. Da esse dobbiamo imparare: l’esperienza di questi anni dovrebbe aver convinto i cristiani che anche loro sono esposti alla malattia mortale. Anche noi dobbiamo convincerci di non avere nessun diritto e che solo l’umiltà può sanare le nostre volontà e le nostre azioni. Essa ci restituisce la libertà della supplica. Non solo, ma stabilisce un legame, quello che unisce i poveri, persino con il nemico.