Il Samaritano

Don Giuseppe Dossetti

Centoquindicesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus e della guerra

Poche parabole di Gesù sono famose come quella del buon Samaritano. Gesù la racconta per rispondere al dottore della legge, che gli aveva domandato: “Chi è il mio prossimo?”. Infatti già la legge ebraica prescriveva, nel libro del Levitico, di amare il prossimo come se stessi (19,18). Ma “prossimo” significa vicino: chi è così vicino a me che io mi senta obbligato ad aiutarlo?

L’umanità è allora divisa in cerchi concentrici rispetto al centro, che è ciascuno di noi. Vicini saranno i miei familiari, poi i miei amici, poi il mio popolo, eventualmente. I pagani molto meno e i Samaritani proprio per niente, visto che sono degli eretici. Conviene, ad ogni buon conto, sentire il parere del Rabbi di Nazareth, che può forse offrirci un criterio aggiornato.

“Un uomo” scende da Gerusalemme a Gerico e incappa nei briganti, che lo derubano e lo lasciano mezzo morto. Non si dice se sia ebreo o straniero, buono o cattivo, o quali opinioni abbia sull’occupazione romana. È semplicemente un uomo, che morirà se nessuno lo soccorre.

Passano tre persone, ma le prime due non si fermano. Invece un Samaritano, lo straniero, l’eretico disprezzato, “lo vide e ne ebbe compassione”: lo cura, lo porta in un albergo, lo affida alle cure del titolare dell’ostello. Non contano le qualità morali o l’appartenenza etnica e religiosa: c’è semplicemente un uomo che ha bisogno, che sta per morire, e un altro uomo che ne ha compassione.

La domanda finale di Gesù rovescia la logica della prossimità: “Chi di questi tre si è fatto prossimo del poveraccio?”. Il Samaritano non si ferma a considerare le qualità o i titoli, e neppure risponde a una richiesta d’aiuto (l’uomo è mezzo morto!), ma “si fa prossimo”, si avvicina al ferito. Ciò che lo muove è qualcosa che lui, lo straniero, ha in se stesso: la compassione.

È facile identificare il Samaritano: è Gesù stesso, che progressivamente sarà abbandonato dai suoi e alla fine crocifisso. Gli daranno del Samaritano (Gv 8,48), proprio per sottolineare il rifiuto della sua dottrina e della sua persona.

È anche facile trovare nella parabola un’alta lezione morale: la carità è farsi prossimi, non aspettare che sia l’altro a chiedere aiuto, avere una sensibilità senza barriere né frontiere. Il Samaritano è il modello di una generosità senza ricerca del tornaconto. Gesù ci propone un esempio altissimo: “Va’, e anche tu fa’ lo stesso!”.

Ma è proprio vero che noi possiamo iscriverci con tanta facilità alla categoria dei buoni samaritani? Non è che per caso noi siamo anzitutto quell’uomo ferito e mezzo morto? L’interpretazione moralistica della parabola è molto pericolosa. Sicuri di noi stessi e portando come decorazioni le nostre opere buone, ci sentiamo in diritto di giudicare gli altri. Le forme e la misura della carità vengono stabilite da noi. Persino la guerra potrà essere considerata un atto di carità ed essere sacralizzata.

Le cose cambiano soltanto se prendiamo coscienza del male che è in noi, di fronte al quale siamo impotenti, come l’uomo della parabola di fronte ai briganti. Purtroppo è facilissimo diventare complici di ciò che non avremmo mai immaginato.

È l’esperienza di san Paolo, persecutore di Gesù nella persona dei suoi discepoli. Egli era un uomo retto, osservante di un’altissima legge morale. Ma dirà a un certo punto: “Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto… Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio… Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,15-24).

Il rimedio viene dalla “grazia”, forse la parola più bella della Bibbia. Grazia è il dono gratuito, sperimentato nel momento della miseria e dell’impotenza. Solo allora potremo essere a nostra volta dei buoni samaritani. non ci vanteremo delle nostre opere buone, ma esse saranno il tentativo di restituire, in piccola parte, quello che abbiamo ricevuto.