Il ricco epulone

don Giuseppe Dossetti Polveriera Reggio – FM

​Un uomo ricco dà una festa per i suoi amici. C’è un piccolo problema: uno straccione, malato, giace sui gradini del palazzo e guasta il panorama. Gli invitati, tuttavia, sanno come scansarlo abilmente e, una volta entrati, il poveraccio viene dimenticato.

Così inizia la famosa parabola del povero Lazzaro e del ricco “epulone”, che vuol dire mangione, festaiolo. Il seguito è noto: secondo il principio del contrappasso, il ricco va all’inferno e il povero, invece, “nel seno di Abramo”.

Probabilmente, la novella esisteva prima di Gesù ed esortava alla solidarietà e all’elemosina. A Gesù, però, interessa una parola, che troviamo spesso associata alla ricchezza: il ricco corre il rischio di essere “spensierato” o, forse meglio, “ottuso”.
​C’è però qualcosa di più, rispetto alla mancanza di attenzione verso i poveri. La spensieratezza, il disinteresse per la sofferenza altrui, determina uno scadimento “sistemico” della persona, un’ottusità generalizzata, che influisce su tutti i pensieri e tutte le azioni di chi ne soffre.

Mi permetto di citare come esempio quello che sta succedendo ora nel mondo, dove uomini elegantemente vestiti affrontano questioni decisive per la vita del pianeta, in modo ottuso, cioè come rassegnati, incapaci di vedere alternative alla guerra e alle bombe. Consideriamo anche un altro aspetto delle preoccupazioni di noi “epuloni” contemporanei: non si riesce a vedere il rapporto con l’Islam se non in termini di contrapposizione a un’ideologia che si considera soltanto aggressiva e violenta. La forza dell’Islam non sta nelle bombe, ma nella sua qualità spirituale.

Al contrario, il rapporto con l’ebraismo viene spesso ridotto all’approvazione o alla condanna della politica del governo israeliano. Certo, anche questo è importante, ma la posta in gioco è ben più alta: è in gioco l’onore di Israele, come popolo e come Stato, e la sua storia millenaria di un rapporto con Dio, “l’alleanza”, che ne fa il portatore della benedizione di Abramo per tutte le genti. Che significato possono avere gli “Accordi di Abramo”, senza Abramo, senza la sua fede?

​Penso che Gesù si riferisca a questo nell’ultima parte della parabola, quando l’epulone chiede ad Abramo di risuscitare Lazzaro, per farlo diventare messaggero di virtù per i suoi fratelli. Abramo dice che ci sono già i libri sacri e alle insistenze del ricco replica dicendo che neppure un miracolo straordinario può scalfire l’ottusità, ma solo una sincera ricerca spirituale: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi anche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,31).

​Per questo, la principale opera di pace consiste nella crescita spirituale. Per un cristiano, il riferimento è allo Spirito di Dio. Il contrario, è lo spirito del mondo, la “carne”, descritto da san Paolo nella lettera ai Galati (5,19ss.) in un modo che corrisponde perfettamente alla situazione attuale: “Sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”.

La pace passa da una profonda revisione del nostro “spirito”, dopo di che avremo gli occhi per vedere la strada, che adesso non vediamo perché il nostro sguardo è malato. Sentiamo rivolto a noi il rimprovero che il Dio di Israele rivolge al suo popolo, nel libro del profeta Isaia: “Apro una strada nel deserto, non ve ne accorgete?” (43,19).

​Su questa strada, incontriamo gli altri uomini, non come nemici o competitori; la solidarietà non è buonismo, ma è camminare insieme.



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