‘Il Giardino dei Ciliegi’, foto di una società decadente

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8.2

Dopo l’enorme successo di Macbettu, classico di Shakespeare il “limba sarda” già passato a Reggio Emilia nella scorsa stagione, Serra torna a teatro con un altro capostipite del teatro, questa volta novecentesco: Il Giardino dei Ciliegi di Anton Čechov. La continuità fra i due spettacoli è chiara ed evidentemente rappresentata da Serra stesso che, come suo solito, pone con la sua “super-regia” totalizzante una firma inconfondibile oltre che sulla messa in scena anche su drammaturgia, luci, suoni e costumi.

Con ben dodici attori, Il Giardino dei Ciliegi racconta di una famiglia aristocratica russa che si vede costretta dai debiti a mettere all’asta la mastodontica villa e l’enorme giardino di amarene (a ben tradurre il titolo di Čechov). Lo stile di vita nobiliare non sembra però subire grandi modifiche e padroni di casa, parenti e servitori continuano a ridere, festeggiare e sperperare. Lopachin, amico di famiglia, offre a Ljuba e Leonid una via di uscita: dividere la loro proprietà in vari lotti da edificare affittare per la costruzione di villini (si può immaginare quando effettivamente grande sia questo Giardino dei Ciliegi, che in fin dei conti rappresenta tutta la Russia). I due fratelli declinano più volte la proposta, si rifiutano di abbandonare il simbolo della loro infanzia; non a caso lo spettacolo inizia nella fantomatica camera dei bambini, che però non ci sono più, sono cresciuti. Ljuba e Leonid sono legati al passato e ignorano il presente che incombe sulle loro vite.

Questo richiamo al passato lo ritroviamo anche nella messa in scena. Serra gioca sul monocromatico: gli attori sono vestiti quasi esclusivamente di nero, con poche eccezioni fra cui quella rilevante di Lopachin candidamente vestito di bianco, unico fra i vari personaggi che sembra muoversi in avanti. I colori dello sfondo cangiante ricordano molto quello dei vecchi dagherrotipi fotografici: grigio, seppia, giallo ocra. Le pareti della camera sono altissime, anche a ricordare l’immensità di questa proprietà, ma lo spazio è quasi del tutto vuoto, solo ogni tanto compaiono sedie o piccoli tavoli, portati in scena sempre molto faticosamente dal servo Firs, che nonostante l’emancipazione dei servi decide di rimanere nella villa a servire i suoi padroni. La notizia della vendita interrompe l’ennesima festa; Lopachin comunica con un senso di riscatto di essere stato lui stesso ad acquistare la proprietà dove suo padre era servo. La bolla a questo punto si rompe: Ljuba tornerà a Parigi e Leonid andrà a lavorare in banca; Lopachin invece non troverà la felicità sperata nel possedere quella terra, che qui in una bellissima immagine si lancia alle spalle con una vanga. La villa rimane vuota e Firs viene chiuso dentro, dimenticato: si lascia morire, come a dirci che se è finita la storia della casa allora è finita anche la sua. La sua morte non è l’unica: la scomparsa del Giardino dei Ciliegi è simbolo della fine della nobiltà in Russia, la morte di un’intera società.

Gli attori, tutti di ottimo livello, dimostrano di sapersi giostrare magistralmente in uno spazio quasi completamente vuoto, anzi di saperlo animare; complici anche quelle che possiamo a pieno titolo definire coreografie ideate da Serra stesso, fatte di contrasti che alternano movimenti frenetici a fermi immagine fotografici. Anche l’aspetto sonoro è molto importante: risate, chiacchericci, russamenti aiutano a creare un’atmosfera distaccata, a volte finta, come la bolla in cui vivono i protagonisti. I personaggi sono definiti in modo quasi caricaturale, il che non stona con il testo, che nella prima parte dello spettacolo è messo quasi in secondo piano per lasciare spazio ai movimenti, ma che ritorna forte nella seconda metà.

È famoso l’episodio in cui Čechov si lamenta del fatto che Stanislavskij abbia interpretato “Il Giardino dei Ciliegi” come un dramma, mentre era stato creato dall’autore come farsa. È evidente che Serra abbia tenuto conto di questo aspetto coniugando luci molto cupe e contrastate, piene di ombre e bagliori, ad interpretazioni attoriali spesso comiche.

Serra, come ha già dimostrato con molte sue regie, riesce a costruire un’architettura che si sovrascrive al testo e lo sorregge; quello che manca questa volta è un legame con lo spettatore di oggi, anche causata dalla scelta del testo, che esce consapevole della distanza storica che divide lui dai personaggi. Il risultato rischia di essere l’esecuzione, seppur eccellente, di una partitura, non lo sconvolgimento profondo che aveva ottenuto con Macbettu.

I nostri voti


Regia
9
Attori
8.5
Efficacia
7