Il Coronavirus e la solitudine della coscienza

Don Giuseppe Dossetti

Siamo tutti convinti che la caratteristica più dolorosa del tempo che stiamo vivendo sia la solitudine. Se ne è parlato tanto, in riferimento al confinamento in casa degli anziani, al divieto di accesso ai reparti degli ospedali, alla morte senza che le persone care siano presenti. Anche gli episodi di ribellione ai limiti imposti dalle autorità sono l’espressione di questo grande disagio.

Tuttavia, vorrei richiamare l’attenzione su un particolare genere di solitudine: la solitudine della coscienza. La pandemia, proprio perché universale, ha distrutto le bugie, che ci raccontavamo per convincerci di essere migliori degli altri. Senza la pandemia, probabilmente non ci sarebbe in Italia il governo di unità nazionale, che non si può spiegare solo con i numeri che non consentono altre maggioranze. Le coscienze dei governanti e dei cittadini sono state messe di fronte a una responsabilità, che ha costretto a pensare al bene comune, prima che a quello di parte.

Si dirà che questa visione è troppo ottimista. Può darsi. Ma spero che qualcuno conservi la memoria di questi giorni per continuare a vivere la nobile solitudine di chi è in quotidiano dialogo con la propria coscienza.

Per un cristiano, c’è un motivo in più per non sfuggire a questa responsabilità. Gesù ha usato il verbo “rimanere”, nella parabola della vite e dei tralci, che abbiamo ricordato la settimana scorsa. Nei versetti successivi, l’esortazione diventa ancora più stringente: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”. E perché non restino dubbi, aggiunge: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”; e ancora: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando”. Il comandamento è appunto quello dell’amore ed è un comandamento senza limiti, sempre nuovo come è nuovo ogni giorno della vita. Si tratta di un comandamento che non solo non ha limiti, ma non ha neppure una sanzione esterna. Chi rifiuta le richieste dell’amore, è consapevole di aver tradito, in misura maggiore o minore, se stesso: è quest’ombra, la sanzione, che però ciascuno di noi sa che può essere levata, perché l’amore si può sempre rigenerare.

Non è neppure necessario che i gesti dell’amore abbiano grandi dimensioni. Questa è la differenza tra l’eroe e il discepolo di Gesù. Riconoscere questo, allarga la nostra visione a tutti quei gesti quotidiani, che esprimono l’amore nella vita di tanti uomini e donne. Come possiamo non apprezzare questa ricchezza, che riscontriamo in tanti “piccoli”, nelle persone magari poco considerate e ignorate?

Se ci mettiamo in un serio dialogo con il Tu, che parla alla nostra coscienza, neppure l’esperienza del male, nostro o altrui, può soffocare la speranza. Gesù prosegue: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). C’è una decisione originaria in nostro favore, definitiva come la morte: è la decisione di Dio di donare il proprio Figlio nelle mani di chi lo avrebbe disprezzato e crocifisso: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”, scrive Giovanni nella sua Prima Lettera (4,10). La nostra debolezza, i nostri tradimenti, il male che riscontriamo in noi stessi e negli altri, tutto è ben presente a Colui che ci ha creato; ma la sua scelta nei nostri confronti è “senza pentimento”, come dice uno che ne aveva fatto l’esperienza, Paolo di Tarso (Rm 11,29).

Siamo stati “costituiti”: quale bellezza in questa parola! C’è una fonte inesausta in ogni uomo, che può riattivarsi sempre. C’è una dinamica di crescita, che ci viene riproposta di giorno in giorno. C’è una responsabilità, che ci viene consegnata, per noi stessi e per gli altri uomini. “Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Deuteronomio 30,14).