L’8 novembre del 1926, Antonio Gramsci, segretario del PCd’I e deputato del Regno d’Italia, è arrestato dalla polizia fascista. Sarà libero per motivi di salute, tra confine e carcere, undici anni dopo, nell’aprile 1937. Una libertà che non poté vivere se non per pochi giorni. Infatti, il 27 aprile un’emorragia cerebrale lo ucciderà.
Le “Lettere dal carcere” di Gramsci, riproposte ora nei Millenni Einaudi con dodici testi inediti, sono considerate un classico della letteratura. Nel 1947, l’epistolario dal carcere vinse il premio letterario “Viareggio” e destò unanimi giudizi favorevoli anche fra coloro che erano lontani culturalmente e politicamente dal Sardo.
Se il 1947 fu l’anno della rottura della collaborazione fra i partiti che solidarizzarono negli anni della Resistenza, l’eco non si ripercosse immediatamente al livello dell’alta cultura, anzi Gramsci, pur criticato per gli esiti della sua filosofia, seppur con toni tutt’altro che aspri, fu davvero l’uomo nuovo della cultura italiana dell’immediato dopoguerra.
L’assegnazione del Premio «Viareggio» a Gramsci rispecchia l’atmosfera politico-culturale sopra descritta confermata ulteriormente dall’omaggio che l’Assemblea costituente rese, il 28 aprile di quello stesso anni, alla sua memoria.
Benedetto Croce, filosofo liberale e per lungo tempo maître a penser dell’Italia dei primi anni del Novecento, scrisse che le «Lettere dal carcere appartenevano anche a chi era di diversa opinione politica per la riverenza e l’affetto che si provano per tutti coloro che tennero alta la dignità dell’uomo e accettarono pericoli e persecuzioni e morte per un ideale».
Tanti passaggi nelle “Lettere” confermano le parole del filosofo napoletano del prigioniero «chiuso in una buia cella» che «riesce ancora essere la guida morale per chi è rimasto fuori» rivelandone la sua «resistenza stoica». A conferma del ritratto crociano, riportiamo quanto scrisse il dirigente comunista sardo al fratello Carlo in una lettera del 19 dicembre 1929, non pubblicata nell’edizione del 1947: «Il mio stato d’animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese». Poco dopo, nella stessa lettera, Gramsci ribadisce la sua profonda convinzione «che l’uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli – da non disperare mai più e non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo».
Nelle motivazioni addotte dalla Giuria al momento dell’assegnazione del Premio Viareggio si legge che «la “condizione umana” non ha avuto in questi anni confusi un più lucido osservatore e testimone». Dalle Lettere, infatti, non solo risulta il suo spessore etico-morale, stoico, ma emerge anche l’attenzione di Gramsci alla storia d’Italia letta attraverso il concreto agire degli attori sociali, non trascurando mai ciò «che le persone pensano realmente». Temi enunciati nelle “Lettere”, affrontati e sviluppati nei “Quaderni”, un elogio della complessità concreta e operante.
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Stato di abbandono? Io direi più atti di vandalismo...
Sono sempre più vergognosi senza un briciolo di pudore ,superpagati per scaldare le poltrone e non per risolvere i problemi reali della gente !
La sinistra vuole solo governare non pensa le cose importanti per gli italiani anche se non è in grado di farl: pur di avere voti […]