Gramsci, ricordi di 3 comunisti reggiani

gramsci4 low

Il 27 aprile ricorre l’84° anniversario della morte di Antonio Gramsci (1937), segretario del Partito comunista d’Italia, sezione della Terza Internazionale (Comintern), e deputato al Parlamento del Regno d’Italia. Divenuto un classico della politica e della cultura italiana del Novecento, tra i più letti e studiati nel mondo. Lo ricordiamo attraverso le testimonianze dei comunisti reggiani Aldo Magnani, Ervé Ferioli e con un “cameo” di Cesare Campioli, che da Parigi, dove si era rifugiato per sfuggire alla cattura, partecipa nel 1933-34 alle iniziative per la liberazione del detenuto n. 7047, Antonio Gramsci.

Ferioli, arrestato nel 1936 per aver diffuso dei manifestini contro la guerra di Abissinia, è condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato «a tre anni per appartenenza al Partito comunista e ad altri quattro per propaganda sovversiva». Quando arriva nel carcere di Turi «Gramsci, che era malato, già era stato trasferito in un ospedale, erano i suoi ultimi mesi di vita. Trovai che tuttavia la presenza di Gramsci, con le sue idee, era molto avvertita. Tutti facevano che parlare di lui».

Antonio Gramsci era stato imprigionato dal fascismo l’8 novembre 1926, subito confinato a Ustica, viene poi rinchiuso, dal luglio 1928, nel carcere di Turi, in Puglia.
Magnani aveva incontrato una prima volta Gramsci, nel 1925, alla “Capanna Mara”, nel comasco, dove si tenevano importanti riunioni clandestine. Gramsci dirigeva la scuola di partito, «ed è lì che feci il primo incontro con il capo del partito». E successivamente nel carcere di Turi, dal gennaio del 1932 al luglio dello stesso anno, poi Magnani è trasferito a Bari. A Turi, Magnani viene subito informato da un “compagno” di Firenze di una provocazione messa in atto contro Gramsci da «un anarchico fattosi provocatore». Quando arriva nella prigione pugliese, secondo Magnani, la situazione di Gramsci, però, è migliorata rispetto alle informazioni, molto scarne, che aveva raccolto precedentemente (tra il 1930 e il 1931) nel carcere di Lecce, dove era stato destinato in un primo momento.

Alcun anni dopo, Ferioli arriva nel carcere pugliese. Ricorda che «un detenuto anarchico, un certo Schicchi, un avvocato siciliano, insinuava che Gramsci sarebbe stato trattato male proprio dai suoi compagni». Subito dopo aggiunge: «Io però non raccolsi quelle insinuazioni, in quanto diffidavo molto da chi le pronunciava, trattandosi di un anarchico». Fra anarchici e comunisti non è mai corso, eufemisticamente, buon sangue.

«Quando l’ho rivisto a Turi dopo sei anni – scrive a sua volta Aldo Magnani – [Gramsci] era molto cambiato: invecchiato nell’aspetto; inoltre, mi fece l’impressione di essere gravemente ammalato, molto più di quanto non lasciasse comprendere». Infatti, nella seconda metà del 1933, sarà trasferito prima nel carcere di Civitavecchia e poi ricoverato nella clinica del dottor Cusumano di Formia, in cui rimase dal dicembre 1933 all’agosto 1935.

Nel 1933, intanto, era partita la campagna internazionale per la sua liberazione che vede Cesare Campioli fra i suoi sostenitori. Da parte sua, Gramsci avrebbe voluto la massima riservatezza, ma nella stampa comunista internazionale viene riprodotto il certificato medico del professor Umberto Arcangeli, dottore di fiducia di Gramsci, e contemporaneamente parte anche la campagna per la sua liberazione. Ciò che Gramsci teme è che Mussolini, di fronte a manifestazioni internazionali contro il regime, blocchi ogni decisione per la sua liberazione, o almeno per la libertà condizionale.
Ferioli, nel 1936, che, prima di essere destinato al carcere di Turi, era passato da quello romano di Regina Coeli, afferma: «nessuno mi disse che a Turi c’era Gramsci. Anche adesso mi chiedo perché non mi dissero nulla della presenza di Gramsci, e forse si sapeva di sue divergenze politiche per la famosa questione dei rapporti con i socialisti».

Nella ricostruzione di Ferioli ci sono alcune sfasature temporali riguardo la detenzione del Sardo, ma è particolarmente significativo ciò che aggiunge poco dopo: «C’era un irredentista slavo, mi sembra si chiamasse Janco, che poi aderì al Partito comunista, ma conservando tendenze trotzkiste. Egli era un uomo molto robusto, alto e grosso, e mi disse: “Gramsci, Gramsci… più di una volta l’ho dovuto difendere io nel cortile dove andava a prendere aria”. Ma non aggiunse altro, e non so dire a che cosa volesse alludere. Dicevano che Gramsci era molto chiuso, che teneva tutto per sé. Questo avveniva, credo, perché le sue tesi allora non erano capite dagli altri compagni, che seguivano degli insegnamenti schematici».

La cella di Antonio Gramsci nel carcere di Turi

La vexata quaestio che pose Gramsci in urto con il suo Partito – e con gli altri militanti comunisti detenuti – dopo il martedì “nero” del 1929 della Borsa di New York, è questa: secondo l’Internazionale comunista, ormai sotto il dominio di Stalin, era imminente il crollo del capitalismo e di conseguenza la rivoluzione proletaria era dietro l’angolo. Nessuna fase intermedia. Il “cazzotto nell’occhio”, secondo l’espressione dello stesso Gramsci, era appunto la sua lettura della situazione mondiale diversa da quella del Comintern. Non poteva che esserci, per il Prigioniero n. 7047, una fase intermedia. Un urto con il Partito italiano e, quindi, con quello russo – una divergenza già manifestata fin dal 1926 sulle questioni inerenti il rapporto fra le minoranze, guidate da Trotsky, Zinoviev e Kamenev, e la maggioranza all’interno del Partito russo guidata da Stalin e Bucharin – che secondo alcuni storici avrebbe interferito negativamente con la sua possibile liberazione. Ma è una posizione controversa e difficilmente acclarabile.

Finalmente, nell’ottobre 1934, Mussolini accoglie la richiesta di libertà condizionale. La salute di Gramsci peggiora. Gli è concesso il trasferimento nella clinica Quisisana di Roma. Nell’aprile del 1937 riacquista la piena libertà, ma pochi giorni dopo, il 27 aprile, muore per emorragia cerebrale. Ha 46 anni.