“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”

Domenica della SS. Trinità, Anno B – 27 maggio 2018

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Alcuni però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

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Al mercato della verdura di Costantinopoli le fruttivendole del quarto secolo disputavano sulla Trinità: argomenti bizantini, diremmo noi, dall’alto della nostra ignoranza. In realtà la formula trinitaria (l’uguaglianza delle tre Persone divine e la loro unità nell’unica natura) ha una straordinaria valenza nelle dimensioni centrali della vita umana.

Il “mistero della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo” sembra all’uomo occidentale una sorta di algebra divina: come l’uno può essere tre e il tre uno? Tuttavia dovrebbe interrogarci il fatto che proprio questa dottrina, e non il velo delle donne, ci divide dall’Islam.

Il deismo al quale siamo abituati, un Dio unico, giudice sovrano, legislatore, “grande orologiaio del mondo”, è debole non solo di fronte al monoteismo radicale del Corano, ma anche alle domande angosciose dell’uomo contemporaneo, all’uomo che vive dopo Auschwitz. Come può interessare un Dio segregato nel suo cielo, perfetto e indifferente di fronte a un male così abissale, che lo nega e lo sfida, lo accusa di essere l’Assente, esattamente il contrario del Nome, rivelato a Mosè, “IHVH”, “Io sono”, io sono il Presente?

Ora, la fede cristiana nella Trinità deriva dall’esperienza d’Israele e poi della Chiesa, che san Giovanni sintetizza mirabilmente: “Dio è amore”. Nell’amore ci sono l’amante e l’amato, e chi ama desidera l’altro proprio come altro, vive l’alterità come dono, non come limite, non come distruzione dell’unità, ma come generazione dell’unità.

L’unità divina non può essere quella solitaria dell’autocrate, ma l’unità della comunione, nella quale la distinzione arricchisce, non indebolisce l’unità. A questo proposito Karl Barth, forse il più grande teologo contemporaneo, sosteneva che la famiglia è la meno debole immagine della Trinità: in essa il riconoscimento della radicale alterità dello sposo, e il rispetto che ne consegue, sono la condizione perché ci sia la gioia della comunione; e la nascita di un figlio non distrugge, ma arricchisce l’unità della famiglia, poiché in lui lo sposo e la sposa vedono l’incarnazione del loro amore.

È necessario però andare oltre. L’amore, di natura sua, vuole comunicarsi e includere in sé l’amato: ma quando Dio si rivolge al mondo, ribelle e peccatore, il suo dono non può prendere altra forma che quella della croce. Altrimenti egli non potrebbe raggiungere l’ultimo degli uomini nell’abisso del suo peccato.

Tuttavia il dono del Figlio non può restare lo spettacolo che l’uomo contempla dall’esterno: ciò che si è compiuto a Gerusalemme e che viene celebrato nella liturgia è l’offerta rivolta alla creatura di lasciarsi introdurre nella relazione del Padre e del Figlio. Questo può avvenire solo grazie allo Spirito Santo, Dio in noi, che costruisce la nostra risposta, ci “guida a tutta la verità”: nel linguaggio giovanneo, la “verità” è la realtà intima di Dio che si comunica all’uomo.

La Trinità è dunque un mistero di comunione, di un Dio che ama l’uomo al punto di volerlo introdurre nella sua stessa vita. Ma a coloro ai quali interessa solo la potenza di Dio, la Trinità non dice nulla.

Erik Peterson, nel suo libro “Il monoteismo come problema politico”, ci ricorda che gli imperatori dopo Costantino negavano la Trinità, perché dall’uguaglianza delle Persone divine sarebbe derivata l’uguaglianza delle persone umane, distruggendo il principio gerarchico necessario per l’ordine del mondo.

L’Islam la nega, proprio perché nega nello stesso tempo la morte in croce di Gesù: Dio non può abbassarsi veramente al livello dell’uomo (la morte ne è la condizione) perché, in ultima analisi, al Dio dell’Islam l’uomo non interessa veramente; Egli è benigno verso la sua creatura, le dona i principi del ben vivere e l’indicazione per ottenere la felicità dopo la morte, ma non può accettare che l’uomo entri veramente nella vita divina.

Ma anche in ambiente cristiano, la Trinità imbarazza coloro che riducono la fede all’etica e la salvezza a una felicità non meglio definita, che meritiamo con le buone opere.

Infatti la Trinità rivela che Dio non è il legislatore e il giudice, ma che egli è l’origine: nulla potremmo se egli non ci amasse per primo; e nello stesso tempo egli è il compimento, poiché la “salvezza” altro non è che la comunione, la gioia dell’incontro e dell’inclusione nell’amore divino: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24).

La Trinità postula una forma di Chiesa accogliente e fraterna, meno custode della moralità e dell’ordine e più compagna di strada dell’uomo, ministra di speranza, capace di porgere consolazione. Ancora, il cristiano non può aderire a dottrine o forme politiche che siano in qualche modo selettive, poiché l’unità trinitaria, alla quale egli partecipa, tende di natura sua a includere tutti gli uomini, nessuno escluso.

Ancora, poiché l’Io esiste solo nella relazione con il Tu, per un popolo il patto precede l’individuo e ne fonda l’esistenza e la dignità; e la libertà diviene responsabilità, nel senso letterale di risposta, di reciprocità, che si alimenta alla libera iniziativa dell’altro.

Se Dio è primo (“Egli ci ha amati per primo”, 1Gv 4,19), a ciascuno spetta di essere primo nell’ambito del suo potere: potere e amore non si oppongono più. Il patto si difende e si promuove non creando muri, ma episodi di comunione. La legge e l’accoglienza non si oppongono, poiché l’inclusione diviene lo scopo della legge e l’accoglienza pone immediatamente la richiesta di aderire al patto che genera la comunità che accoglie.

Esiste oggi una retorica dell’amore. Certo, è sempre meglio della bieca retorica di un’identità rivendicata contro altri esseri umani. Riflettere sulla Trinità aiuta però a fondare meglio l’imperativo dell’amore, come fa san Giovanni: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,10-11).

Allora all’imperativo morale si unisce una promessa: grazie all’amore, anche se include il sacrificio, vi sarà la gioia dell’incontro e della comunione e l’uomo, andando oltre se stesso, realizzerà la propria natura, dilatando il proprio orizzonte, fino a guardare all’altro uomo e alla storia con gli occhi di Dio.

Forse però dovrei fare come don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta, del quale si è introdotta la causa di beatificazione. Stava preparando un’omelia sulla Trinità quando entrò un suo prete, che lavorava con gli zingari, e gli disse: “Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra. E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri”. 

Don Tonino allora stracciò i suoi appunti. Io non cancello quello che ho scritto, ma queste parole mi paiono un bellissimo, perfetto riassunto.