La pandemia, circondati dalla sofferenza

Don Giuseppe Dossetti

Quarantottesima lettera alla comunità al tempo del coronavirus

Nella vita pubblica di Gesù c’è un momento di svolta: egli sta andando a Gerusalemme e sa che cosa lo aspetta. Lo dice ai discepoli ed essi rimangono sbigottiti. Li angoscia la sorte del Maestro tanto amato, ma anche la crisi dei loro ideali, delle aspettative, per le quali avevano rinunciato a tutto, per seguirlo. Un Messia non può soccombere, essere consegnato ai pagani, essere disprezzato e crocifisso!

Gesù viene incontro a questa debolezza dei suoi. Con tre di loro sale su un monte, forse il Tabor in Galilea. Lì viene “trasfigurato”: la gloria, la bellezza di Dio lo avvolgono; la luce, che splende in lui e rende le sue vesti candide, si riflette sui tre discepoli. È una luce amica, è gioia, è vita. “È bello per noi essere qui”, esclama Simon Pietro.

Essi, però, non si rendono conto del prezzo che il Maestro dovrà pagare. Scendendo, Gesù ordina loro di non raccontare a nessuno quello che hanno visto, “se non dopo che il Figlio dell’uomo sarà risorto dai morti”. Obbediscono, ma si chiedono che cosa significhi “risorgere dai morti”: perché parlare ancora di morte, quasi fosse un passaggio necessario per avere la pienezza della vita?

Il prezzo della vita è invece ben chiaro a Gesù. Sul monte gli appaiono Elia e Mosè, i grandi profeti dell’Antica Alleanza, e conversano con lui. L’evangelista Luca ci ha conservato il contenuto di questo colloquio: il suo “esodo”, concretamente, la sua morte, che doveva avvenire a Gerusalemme. Essi sono venuti a consolare Gesù, a confermargli quello che le Scritture avevano annunciato, che il Messia sarebbe stato un Servo sofferente, apparentemente sconfitto, caricato di tutto il male del mondo.

L’obbedienza del Figlio “apre il cielo”, come era avvenuto in occasione del Battesimo nel Giordano da parte di Giovanni. Ora, Dio può parlare: “Questo è il Figlio mio, l’amato”. Non si tratta, però, soltanto di una presentazione, ma di un’offerta. Similmente, nell’ultima Cena, Gesù dirà: “Questo è il mio Corpo” – e aggiunge, nella versione riportata da Luca e da Paolo, “che è per voi”. È dunque una presenza offerta, concreta e definitiva, come lo sono il corpo e il sangue.

Così, al Giordano e sul Tabor, Dio rivela se stesso. La parola “Dio” sbiadisce, viene sostituita da una ben più compromettente, “Padre”, un padre che consegna il Figlio amato per altri figli, ribelli e raminghi, ma ugualmente amati. Avvertiamo il pathos di questa offerta.

Viene in mente la frase di Paolo: “Per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore…” (2Cor 5,20ss.). Quale inversione di ruoli! Dio supplica l’uomo. D’altra parte, solo questa può essere la risposta all’accusa che nei secoli è stata tante volte ripetuta: “Tu puoi tutto, tranne fare una cosa: morire, sperimentare l’angoscia estrema della lontananza da te”.

Anche oggi, nel pieno della pandemia, circondati da tante sofferenze, impauriti di fronte alla morte, il nemico che avevamo pensato di esorcizzare, la parola che risuona sul Tabor ci ricorda che, accanto alla croce dell’uomo, vi è un Dio ugualmente crocifisso.

Una parola viene aggiunta a quelle già pronunciate: “Ascoltatelo!”. Purtroppo noi l’abbiamo intesa come l’esortazione a obbedire a nuovi e più elevati comandamenti. Penso che questa sia un’offesa terribile, che inconsciamente facciamo a Dio. Egli ci sta consegnando il suo Figlio, ben sapendo che cosa faremo di lui. Dovremmo ascoltare proprio questo, interrogarlo sulla sua infinita misericordia, sentire rivolte a noi le parole: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,12s.).

Come si può comandare l’amore, se non chiedendolo come risposta al dono? “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Possiamo consegnare la nostra vita, sapendo che l’affidiamo al Pastore buono, al quale nessuno può strappare le sue pecorelle. Anche nella fatica, nella prova, nell’ora della paura, udiamo la parola, “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).