Patrick Zaki resta in carcere. Nel processo a Mansura, in Egitto, nuovo rinvio al 7 dicembre

free Patrick Zaki striscione

Martedì 28 settembre presso il tribunale di Mansura, in Egitto, si è tenuta la sessione nella quale era inserita anche la seconda udienza del processo a Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto in custodia preventiva da oltre un anno e mezzo. Il giovane ricercatore è accusato di “diffusione di notizie false dentro e fuori il paese” per un articolo sulla situazione della minoranza cristiana copta nel paese nordafricano: se sarà condannato, rischia una pena fino a un massimo di cinque anni di carcere.

Al termine dell’udienza, durata anche in questo caso pochissimi minuti, i giudici egiziani hanno aggiornato il processo al 7 dicembre, dopo che la difesa aveva chiesto un rinvio per poter studiare gli atti. I legali di Zaki, infatti, hanno chiesto una copia autenticata del fascicolo sul loro assistito.

Almeno fino a quella data, dunque, Zaki resterà ancora in carcere. “Un rinvio abnormemente lungo che sa di punizione”, ha commentato all’Ansa Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia: “Il giudice poteva sì accogliere, come ha fatto, la richiesta della difesa di un rinvio, ma poteva disporre un rinvio tra una o due settimane. Tra l’altro la data della prossima udienza, il 7 dicembre, è amaramente simbolica perché segnerà il ventiduesimo mese di detenzione arbitraria e illegale di Patrick e quindi una sofferenza continua. Abbiamo del tempo davanti per fare qualcosa di importante, di efficace nelle relazioni tra Italia ed Egitto. La richiesta che facciamo è che la diplomazia italiana utilizzi questo tempo nel migliore dei modi”.

Così come la prima, risalente allo scorso 14 settembre, anche questa seconda udienza si è tenuta davanti a una Corte della sicurezza dello Stato per i reati minori (o d’emergenza) di Mansura, la città natale di Patrick Zaki. In aula erano presenti anche il padre George, la sorella Marise e un dirigente della ong Eipr, per la quale Zaki lavorava come ricercatore fino al momento dell’arresto, avvenuto il 7 febbraio del 2020 all’aeroporto del Cairo. All’udienza sono stati ammessi anche i giornalisti, che sono però stati diffidati dal girare video o scattare foto.

Una legale dello studente, inoltre, ha confermato che restano ancora in piedi le accuse di “minare la sicurezza nazionale” e di istigare alla protesta, “al rovesciamento del regime”, “all’uso della violenza e al crimine terroristico”, tutte ipotesi di reato basate su dieci post Facebook di controversa attribuzione (secondo i legali di Zaki, infatti, non sarebbero riconducibili al giovane studente) e che con ogni probabilità saranno affrontate eventualmente in un’altra sede. In quest’ultimo caso, secondo Amnesty International, se dovesse essere riconosciuto colpevole il ricercatore rischia una pena che potrebbe arrivare fino a 25 anni di carcere, o addirittura – secondo quanto sostengono fonti giudiziarie egiziane – all’ergastolo.