Basilica Agonia, il mio luogo dell’anima

don Giuseppe Dossetti Centro Giovanni XXIII Reggio Emilia

Quando vado a Gerusalemme, il mio luogo dell’anima è la Basilica dell’Agonia, che custodisce la roccia, sulla quale Gesù ha pregato e ha sudato sangue prima dell’arresto e della passione. Immagino il Figlio di Dio, che chiede aiuto agli uomini, ai suoi amici: “Cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: L’anima mia è triste sino alla morte; restate qui e vegliate con me” (Mt 26,37s.). Ma essi si addormentano e lo lasciano solo. Di fronte a che cosa? Certo, di fronte alla morte; ma soprattutto egli è schiacciato dal peso del male del mondo, che gli si para davanti, nella sua orribile realtà.

Del resto, egli ne è stato consapevole fin dall’inizio della sua missione: Giovanni il Battista lo accredita davanti ai suoi discepoli, dichiarando: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Tanti anni prima, un profeta aveva parlato di un misterioso “Servo di Dio”, proprio in questi termini: “Il Signore fece ricadere su di lui il peccato di noi tutti … Era come agnello condotto al macello” (Is 53,6). E’ molto interessante, che sia Giovanni come Isaia parlino di “peccato” al singolare. Certo, ciascuno di noi porta il suo contributo alla montagna del male; ma c’è qualcosa che viene prima, un vero “peccato originale”, una radice unica, che produce frutti tossici diversi. E’ il peccato di Adamo, dell’uomo che vuole essere il dio di se stesso, che rifiuta la richiesta, anche questa unica e radicale, del suo Creatore: “Ascolta, Israele!”(Deut 6,4). L’uomo peccatore è sordo e cieco, di fronte a Dio e di fronte agli altri uomini.

Il “peccato”, dunque, al singolare, viene tolto dalle spalle di chi lo commette. Questo è il significato del termine greco, che significa anzitutto “sollevare”. Esso viene tolto dalle spalle dell’uomo, per essere caricato sull’Agnello. San Paolo usa un’espressione incredibilmente ardita, quasi intraducibile: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato a nostro favore” (2Cor 5,21): il Crocifisso esprime sino in fondo la natura del “peccato”, l’abisso che lo separa dal Dio della vita, la morte come conseguenza dell’orgoglio e della presunzione di colui che adora se stesso.

Va aggiunto qualcosa. Noi siamo abituati a pensare al peccato come a una cattiva azione commessa da un singolo uomo. In realtà, il peccato diviene un sistema di male, che tende a occupare la storia: diventa “il peccato del mondo”. Esso travolge le capacità di resistenza anche di coloro che vorrebbero fronteggiarlo e contrastarlo. Se non si prendono contromisure, più si consente al “peccato” di impiantarsi e di esprimere la sua carica mortifera, e più anche coloro che sinceramente vorrebbero creare un’alternativa diventano spettatori rassegnati o, peggio ancora, complici involontari.

Ancora una volta, è la guerra che ci rivela questo meccanismo. Credo che, a questo punto del conflitto in Ucraina, tutti vorrebbero trovare una via d’uscita. Nessuno però vuole rischiare di fare il primo passo o di perdere la faccia: così, si va avanti rassegnati e ogni giorno aumenta il prezzo che viene pagato oggi e quello che si dovrà pagare in futuro, se e quando termineranno le ostilità.

Come uscire da questo vortice di male? La prima cosa da fare, è di persuadere noi stessi che il male non è inevitabile, anche quando lo sembra. Per comprendere questo, ci si deve mettere alla scuola dell’Agnello, come degli scolari ignoranti, ma desiderosi di apprendere. Di qui, l’importanza della preghiera, come rimedio alla superbia adamitica: ci fa bene riconoscere la nostra impotenza e supplicare che ci venga dato quel lume celeste, grazie al quale è possibile vedere l’impossibile. Si può obiettare che questo vale solo per i Cristiani, che conoscono il nome dell’Agnello. E’ vero, ma accanto all’Agnello ci sono tanti altri agnelli, che andrebbero conosciuti e ascoltati: il contatto con i poveri, con le vittime, con coloro che non riescono a far valere i loro diritti, ci fa stare male, ma ci aiuta a chiarirci le idee, a sfuggire alla retorica.

Per quel che riguarda la guerra ucraina, credo che dobbiamo abituarci a pensare che la pace non è solo l’unica via d’uscita, ma che è possibile. Non si tratta soltanto di far tacere le armi, ma di stare vicino alle vittime, come si può; inoltre, bisogna fin da adesso pensare alle macerie spirituali e a come ricostruire l’uomo interiore, altrimenti si tratterà di una tregua, in vista di nuovi conflitti. Ma bisogna anche supplicare quel Tu, che si trova all’orizzonte di ogni uomo: non è male riconoscere la propria impotenza, se questo ci fa diventare un po’ più umili e più capaci di ascoltare una voce che consola e incoraggia, e che ci dice che il male non ci può schiacciare, perché qualcuno, l’Agnello e gli agnelli, ha accettato di portarlo al posto nostro.