8 marzo, al via la campagna di comunicazione della Cgil di Reggio “Noi donne non abbiamo mai chiuso”

Noi donne non abbiamo mai chiuso

È “Noi donne non abbiamo mai chiuso” il titolo della campagna di comunicazione che la Cgil di Reggio ha voluto realizzare in occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Il claim vuole simboleggiare come le donne siano state – in questo lungo anno di pandemia – e siano ancora sempre “aperte” ad affrontare le sfide della quotidianità e il carico di impegni che, aggravato ulteriormente dalla condizione pandemica, spazia senza soluzione di continuità dal lavoro fuori casa a quello dentro casa.

Nel manifesto della campagna campeggia un grande “otto” che si gira diventando un paio di occhiali, a simboleggiare un’ottica attraverso cui leggere il mondo: non solo l’8 marzo, ma tutti i giorni dell’anno; ma anche a sottolineare lo sguardo, protagonista indiscusso dei nostri volti ai tempi delle mascherine.

La campagna sarà portata in giro per le strade di Reggio durante tutta la settimana dall’8 al 14 marzo attraverso un camion-vela che sosterà in diversi punti della città.

Parallelamente al manifesto principale, sui canali social della Cgil reggiana (Facebook, Instagram e Twitter) saranno pubblicate altre quattro immagini che approfondiscono altrettanti temi: il lavoro di cura, il lavoro non pagato, il gender pay gap e il differenziale occupazionale rispetto alla laurea conseguita.

“Non potendo scendere in piazza con i nostri corpi e la nostra fisicità, la campagna proposta diventa un modo per veicolare un messaggio di riconoscimento e impegno, di denuncia ma anche di lotta e partecipazione, e arrivare alle persone anche in assenza di momenti di condivisone in presenza”, ha spiegato il sindacato reggiano.

Sempre in occasione dell’8 marzo, inoltre, il segretario generale della Cgil di Reggio Ivano Bosco ed Elena Strozzi della segreteria della Cgil reggiana (con delega alle politiche di genere) hanno scritto una lettera aperta.

Facendo alcune riflessioni sul significato dell’8 marzo che si avvicina, la conclusione più logica che se ne può trarre è quella che non stiamo vivendo in un paese civile: dobbiamo ammettere che in questi anni non sono stati fatti passi avanti culturali, normativi, di comportamento verso la conquista di un’effettiva parità di genere.

Sono tanti gli esempi che si potrebbero portare a sostegno di questa condizione negativa. A partire da quello più tragico dei femminicidi. Non passa settimana che le cronache non segnalino una o più tragedie simili. Ma pensiamo che l’errore parta da qui: considerarlo ormai come un fatto di cronaca al quale ci si abitua. Dietro a questi assassinii c’è molto di più: c’è un aspetto culturale, di possesso, di dominio (siamo il Paese dove fino a qualche decennio fa si giustificava il delitto d’onore).

Non è sufficiente giudicare malata la psiche dell’assassino se non si agisce preventivamente su altri fattori. Ci sono condizioni esterne, che rendono sempre più frequenti questi gesti e che devono essere rimosse. Partendo dall’educazione che famiglia e scuola devono dare già nei primi anni di vita ai ragazzi. Ma grande importanza ha anche il lavoro, sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo.

I dati, anche in questi mesi di pandemia, sono emblematici: secondo il più recente report presentato dell’Istat, nell’ultimo mese del 2020 sono stati rilevati 101.000 occupati in meno, di cui 99.000 risultano essere donne. In un anno gli occupati sono calati di 440.000 unità, anche in questo caso il numero più alto riguarda le donne, ben 312.000. Nonostante ciò registriamo che il Covid ha colpito molto più le donne che gli uomini raggiungendo circa il 70% dei contagi nei luoghi di lavoro. Lavoratrici nei servizi di cura, infermiere, operatrici sanitarie e nel campo dell’istruzione le più colpite.

Questo significa che oltre ad esistere un vero e proprio problema in termini di numeri assoluti riguardante l’occupazione femminile, anche la qualità stessa del lavoro lascia a desiderare: molto concentrata nei servizi e nella cura, con percentuali di part time involontario, tempo determinato, precarietà ben oltre la media europea, nonostante un alto tasso di scolarizzazione, evidentemente non riconosciuto.

I settori più colpiti dalla crisi economica e sociale causata dalla pandemia sono quelli in cui vediamo più presenti le donne, che sono insieme ai giovani le categorie più colpite dalla perdita di posti di lavoro. La concentrazione di più di due terzi dell’occupazione femminile in soli sette settori mostra come gli esiti occupazionali delle diverse crisi sono ancora pesantemente influenzate dalla cosiddetta “segregazione occupazionale” e i dati che abbiamo visto ce lo dimostrano.

Avere un’occupazione stabile e qualificata, oltre ad essere un diritto, permette l’indipendenza e la libertà di non dover dipendere da altri. Il lavoro significa emancipazione, libertà, consegna di un ruolo nella società. Una società che, con le scelte che compie, declina se stessa sempre più al maschile: quando si decide di tagliare risorse alla scuola d’infanzia e ai nidi, ai servizi di cura, alla sanità, all’assistenza, si costringe una parte della popolazione a non poter cercare un’occupazione, ma a dedicarsi a quei compiti che lo Stato non assicura più.

E l’altro dato drammatico che emerge è quello dell’aumento di coloro che, una volta perso il lavoro, per vari motivi smettono poi di cercarlo: i cosiddetti inattivi. E tutto ciò ricade generalmente sulle donne. Quando per pubblicizzare e vendere un prodotto viene utilizzato il corpo femminile, viene lanciato un messaggio di mercificazione ben chiaro.

Nessuna scelta è neutra: da quelle politiche a quelle economiche a quelle educative e culturali. Oggi l’Italia ha davanti a sé una grande opportunità: i miliardi, in quantità mai vista prima, che arriveranno dal Recovery Found. Serviranno per far ripartire il Paese, per riammodernare il sistema industriale, scolastico, sanitario, per sviluppare progetti concreti che potranno creare nuova occupazione. Vedremo.

Anche queste non potranno essere scelte neutre, ma orientate a volere cambiare tutto quello che, in questo terribile anno, abbiamo detto in coro che non funzionava. E tra queste, le differenze di genere che alimentano le diseguaglianze che questa pandemia ha tragicamente aumentato.

Tutti gli anni ci ripetiamo che queste “sensibilità” non possono essere espresse solo l’8 marzo e poi dimenticate negli altri 364 giorni. Ora siamo di fronte ad un’opportunità che può cancellare gli alibi economici che ci hanno sempre limitato. Alla politica, a noi tutti che i nostri rappresentanti politici scegliamo, al sindacato che deve essere coerente con le affermazioni  fatte e servire da pungolo alle scelte politiche, il compito di indirizzare queste scelte.

Con l’augurio, magari già il prossimo anno, di poter valutare i primi risultati di questa battaglia e poter affermare con convinzione di vivere finalmente in un Paese civile.