60 anni fa la strage del Vajont: il racconto di chi c’era (e salì sugli alberi a raccogliere i cadaveri)

VAJONT

Tutta Italia si appresta a ricordare il 60esimo anniversario della strage del Vajont, immane tragedia che la sera del 9 ottobre 1963 costò la vita a 1.910 persone, 487 delle quali di età inferiore a 15 anni. 24Emilia lo fa ripubblicando un toccante articolo che, dieci anni fa, scrisse per noi Miten Veniero Galvagni, psichiatra (e molto altro) di origini bellunesi, ma reggiano di adozione, storico columnist del nostro giornale.

Galvagni, che in quel maledetto ottobre 1963 aveva 19 anni, quando una frane staccatasi dal monte Toc fece tracimare il bacino della diga del Vajont, al confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, spazzando via tutto quello e tutti coloro che erano a valle, abitava a Mel – a una quarantina di chilometri da Longarone – e studiava Medicina. Ma era anche capo-scout e, in queste vesti, fu tra i primi a prestare i soccorsi, racciogliendo anche diversi corpi senza vita rimasti incastrati sugli alberi e ricevendo con il suo Riparto la Medaglia di bronzo al valor civile della Repubblica.

Proprio “I morti sugli alberi” è il titolo scelto oggi da Galvagni per il suo ricordo che di seguito ripubblichiamo, con una postfazione aggiornata.

Su “la Repubblica” di domenica 22 settembre 2013, Marco Paolini ricorda quanto grande sia la dimenticanza diffusa, tra la gente comune e a livello politico, della tragedia del Vajont. Si tratta – sostiene Paolini – di ricordare quanto è successo al fine di non commettere, in futuro, gli stessi errori giudiziari e di non cedere alle trascuratezze burocratiche o anche semplicemente umane, comunque imperdonabili, subite dalle vittime della tragedia. E, giustamente, Paolini smaschera anche la superficialità inattesa e sciocca sia di Giorgio Bocca che di Dino Buzzati, sui loro giornali, all’indomani della tragedia.
Sullo stesso numero de “la Repubblica”, Paolo Rumiz sottolinea le analogie processuali con il terremoto de L’Aquila, riportando episodi da lui vissuti con superstiti e con un parente del costruttore della diga del Vajont. Con i primi, episodi commoventi. Con il secondo, uno scambio di opinioni da fucilazione immediata sul campo di costui.
Quest’ultimo week end, a Longarone, c’è stata una commemorazione della tragedia. Per motivi di salute, io non sono potuto andare. Ma ho telefonato a qualcuno dei “miei” dell’epoca che ci sono stati. Ebbene, nemmeno una parola sulle ingiustizie patite dalle vittime! Ma ora è il momento di raccontare.

Nelle ultime settimane, mentre sto rivivendo ciò che ricordo della tragedia del Vajont, ho dei contatti telefonici con diversi amici d’un tempo, persi per tanti anni d’occhio e d’orecchio e ora ritrovati. Qualcuno di loro l’ho anche rivisto recentemente.

Parlare con loro di quanto ricordo e confrontarlo con quanto loro si ricordano di quei giorni, mi sta servendo molto per rimaneggiare il racconto di molti avvenimenti che, da solo, non riuscirei a rivivere con una sufficiente precisione descrittiva, confondendo troppo facilmente la storia con la fantasia.

Desidero, dunque, scrivere qualcosa che ha più a che fare con la cronaca che con la letteratura. Anche se, lo ammetto, sono spesso tentato da considerazioni filosofiche, parafilosofiche e psicologiche che con la cronaca non hanno niente a che fare, ma che scelgo di assecondare, per un antico vizio. Esattamente come scelgo di assecondare una cronaca “a ritroso”, o “rimbalzando” avanti e indietro nel tempo, nei passaggi in cui mi vengono in mente particolari da decenni dimenticati e che raccontano sia di me che della mia famiglia di origine, che di alcuni personaggi e situazioni da cui sono stato circondato e in cui sono stato immerso per tantissimi anni.

Come potrei, infatti, parlare di Mel, pur mantenendo come centrale la cronaca di ciò che abbiamo vissuto nei giorni della tragedia del Vajont, tralasciando il mondo che mi ha visto nascere e passare gli anni più “garantiti” ed “innocenti” della mia vita?

Scriverne e confrontarmi con questi amici, mi serve per liberarmi di memorie deformate, senza ritraumatizzarmi (o, almeno, a me così pare) e spero che qualcuno che non sa niente, o quasi, del Vajont, leggendo queste parole, provi il desiderio di leggerne altre sull’argomento e possa avvalersene per una sua personale memoria storica di cui, ovviamente, poi è libero, e responsabile, di fare ciò che vuole.

Desidero ringraziare per questo confronto, in modo particolare, Lanfranco Da Canal, Gioacchino Lot, Ernesto Perera, Mario De Cal, Rino Dolce, Maurizio Ambria, Stefano Sto, Flavio Dal Piva, Francesco Piero Franchi (Franz) e Rosetta Girotto. Il ringraziamento che desidero rivolgere a tutti loro nasce nel mio cuore da motivi molto diversi e anche diverse sono state le modalità di confronto con ognuno. Un grazie particolare all’impegno degli scout di Mel e di Treviso, nel darmi modo di riallacciarmi con maggior pregnanza a quei giorni di 50 anni fa.

Sera del 9 ottobre 1963. La sera del Vajont. Ho diciannove anni compiuti a gennaio. Abito nella casa dei miei nonni materni a Mel, in una casa a tre piani affacciata su la contràda, o stréta (via Roma), principale strada d’ingresso nella piazza Umberto I (ora piazza Papa Luciani) la piazza principale del paese, e anche l’unica con la fisionomia di una vera piazza.

Mel è un paese di ottocento abitanti, steso su di una collina, nella Valbelùna, sulla sinistra Piave. È un capoluogo di comune con ventidue frazioni, per un totale di diecimila abitanti, in provincia di Belluno, a metà strada tra Belluno e Feltre, 17 chilometri da una parte e 17 dall’altra. Paese contadino, artigiano e impiegatizio ma con una grande quantità di emigranti, soprattutto verso Milano, Svizzera, Francia, Argentina, Germania ancora “al di qua” del muro. E poi in Belgio… sì, Belgio, invariabilmente in miniera. Come quella di Marcinelle…

Il dialetto che vi si parla differisce leggermente da quello parlato sia a Belluno che a Feltre, dato che, come quasi tutti i dialetti italiani, non è espressione solo dei territori delle Province, ma è infarcito di sfumature di pronuncia, e anche di parole, che rimandano ai dialetti parlati nelle Diocesi di pertinenza. Ebbene, la Diocesi di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, si insinua dentro la provincia di Belluno in tre comuni: Lentiai, Mel e Trichiana. Così, a Mel, si parlava e si parla tuttora, con un’intonazione che ricorda a tratti il trevigiano.

 

A tutto ciò, poi, si aggiunge la questione delle etnie, come ben sottolineato da Francesco Piero Franchi, nell’introduzione al suo volume “Belluno. Antologia dei grandi scrittori”, quando, parlando del Veneto, scrive: “Una regione? No, in realtà sette province. Sette province? No, in realtà quasi seicento comuni. Seicento Ccmuni? No, in realtà un pulviscolo di frazioni caratterizzate da una propria specifica identità…”. Partendo dai paleoveneti e passando per tutte le etnie di cui, a Mel, esistono reperti archeologici attendibili, per arrivare fino all’attuale società globalizzata, si capisce bene come, paeselli distanti fra loro a un tiro di schioppo, possano parlare idiomi almeno un pochino tra loro diversi.

Ma questa appartenenza alla Diocesi di Vittorio Veneto non impedisce agli abitanti di Mel (Zumellesi, dalla voce Zumelle, gemelli, nome che nasce da quello di un castello, dove erano nati due gemelli ai castellani del VI Sec. d.C.) di sentirsi estranei alla “Marca Trevigiana”, considerata una semplice appendice della Serenissima Repubblica di San Marco, da molti secoli vissuta con un certo astio dai bellunesi non benestanti economicamente, sia per le razzie di pini e abeti che venivano usati per le navi del Doge (il quale, viceversa, con i benestanti locali andava d’accordissimo) sia per l’attitudine all’ altezzosa aristocrazia dei nobili veneziani , e anche dei ricchi mercanti che si avventuravano nelle valli del Feltrino e del Bellunese, dello Zoldano, dell’ Alpago, dell’Agordino e poi su, su, fino al Cadore e al Comelico.

Questa sera (9 ottobre 1963) sono molto impegnato a studiare per l’esame di Biologia umana, che ho programmato di sostenere al secondo appello della sessione autunnale d’esami. È l’ultimo esame che mi resta di quelli previsti per il primo anno della Facoltà di Medicina e Chirurgia, che sto frequentando all’Università di Padova.

Alle ventitré e dieci sento un rumore sordo e continuo che proviene dalla direzione del Piave. Al momento non sono colpito particolarmente da quel rumore, perché lo scambio per il rombo che i carri armati, provenienti dal Friuli, fanno durante le loro periodiche esercitazioni sul greto del fiume e, nella nostra zona, siamo abituati a conviverci. Un rombo lontano che dura circa dieci minuti, quindi, senza particolari preoccupazioni, guardo l’ora, spengo la luce e pian piano scivolo nel sonno.

La mattina dopo, alle cinque, mia madre, agitatissima, entra in camera mia senza bussare, mi sveglia e mi racconta tutto d’un fiato ciò che mio nonno ha appena appreso dalla radio, allertando subito sia lei sia mia nonna (dormiamo tutti in camere separate, e mio padre, in questo periodo, lavora a Venezia, facendo il pendolare nei fine settimana): Longarone è stata spazzata via, e la prima versione dei fatti individua la causa nel crollo della diga del Vajont.

 

La sera prima era passata l’onda di piena alta almeno otto metri che, per la violenza e la velocità dell’acqua, aveva completamente spogliato i corpi delle persone, come sempre fa l’acqua dei fiumi quando sono impetuosi e impietosi. Se ci cadi dentro, o ti travolge, o ti risucchia, ti spoglia tutto intero nel tratto di cento metri, risparmiando solo le panciere ben strette e, generalmente, i reggiseno delle donne.

Da Longarone, lungo una quarantina di chilometri di fiume, l’acqua ha posato sui rami degli alberi, o incagliato negli anfratti delle rive, i cadaveri di decine e decine di persone… e ora eccone lì tre… a sette, otto metri di altezza.

Il cielo è plumbeo, data l’ora e il vapore che sta salendo come nebbia da tutto quel bagnato intorno. I morti sono bianchi candidi nel buio degli alberi, trattenuti dai rami nelle pose più improbabili e lontane dalla mia pur fervida immaginazione.

Ben presto, però, appare il sole, che picchia duro e ben stranamente, per essere d’ottobre. Il clima è torrido e di lì in avanti ci accompagna almeno per una settimana.

Sono un capo scout, vice capo Riparto del Gruppo Mel 1, appartenente all’Associazione Scout cattolici italiani, A.S.C.I., quando ancora non era diventata A.G.E.S.C.I., fondendosi così con le Guide, le Girls Scout, cosa impensabile in Italia, nel 1963. Uno dei nostri motti è l’evangelico “Estote parati” (Siate pronti, preparati) che io decido di prendere alla lettera.

Decido anche, almeno per quel giorno, di lasciar perdere con l’esame di Biologia.

Mi lavo e mi vesto in fretta e subito mi fiondo al bar “da Bonesso” dove, come sono solito fare da qualche mese per essere come i vèci (termine usato in tutto il Veneto per indicare anche i giovani adulti, amici di fatto o anche solo potenziali, non solo gli anziani), mi ingollo un bicchiere di grappa, non un semplice bicchierino e, per svegliarmi un po’, mi accendo anche un “toscano”, un sigaro corto, malformato, molto puzzolente, contenuto in una scatolina rossa.

Solitamente, questo cerimoniale, lo celebro dopo essere stato a “Messa prima” (cioè alle sei e mezzo di mattina) e poi, traballante, ma solo per un quarto d’ora, me ne torno a casa, distante solo un centinaio di metri, per poi studiare dodici ore di fila, saltando sia la prima colazione sia il pranzo. Mia nonna e mia madre brontolano per questo mio strano comportamento alimentare, ma mio nonno, che è poi il padrone di casa (anche se lui è convinto che sia mia nonna “la parona”) mi lascia fare: ha ben compreso che è giunta l’ora che io cominci a farmi i fatti miei anche se, ovviamente, sempre sotto la sua supervisione.

È lì, “da Bonesso”, che arrivano le prime, terribili voci: “Ghe né i morti sui alberi!” “Andove?” “Dò, sui alberi visìn a la Piave, dò par Cornelio”. “Ci sono i morti sugli alberi!” “Dove?” “Giù sugli alberi vicini al Piave, giù per (il sentiero di) Cornelio”.

In un attimo mi ritrovo in cima alla piazza, con Mario Carnièl e Angelo detto Angelìn de Pino, figlio di Pino Lorenzét, il mitico fabbro del paese, che già sono scesi al Piave e sono tornati su per prendere una scala e delle corde. Scendiamo per il sentiero “di Cornelio” assieme. Laggiù ci sono altre due o tre persone che non ricordo, e una di loro sta vomitando.

 

All’inizio la scena mi appare come il quadro di un pittore fiammingo, ma ora non la ricordo più così. Con il passar delle ore, infatti, la rappresentazione cambia, e quando, otto anni dopo, vedo per la prima volta il film di Mario Monicelli “Brancaleone alle crociate”, con la sequenza dell’albero degli impiccati, ecco, la scena è quella.

La prima cosa che decidiamo di fare è di arrampicarci sugli alberi e, con l’ausilio di corde, portare a terra quei corpi senza vita.

Mario Carnièl e Angelo Lorenzét, il primo basso di statura e largo di muscoli, il secondo alto di statura e tutto nervi e muscoli scolpiti senza bisogno di body building, appoggiano saldamente la scala all’albero e la tengono ben ferma mentre io ci salgo sopra per arrivare ai primi rami. Poi, di ramo in ramo, su, su, fino a raggiungere il corpo, passo la corda attorno a un ramo robusto, imbrago il cadavere e lentamente lo calo fino alle braccia protese di Mario e di Angelo che lo stendono a terra. Tre alberi diversi, tre morti diversi, due donne giovani e un anziano.

Qualcuno, ad un certo punto, arriva con un camioncino, e carichiamo i tre corpi che, su ordine del medico condotto, devono essere portati nella cella mortuaria del cimitero di Mel, vicino a Marcador.

 

Non sto provando paura, piuttosto una sensazione di totale impotenza di fronte a questa mostruosità che, diversi anni dopo, avrei definito “forza panica della natura”. Poco dopo, tra i cespugli, trovo il corpicino di un bambino di circa due anni. Proprio a quel punto, arriva il medico condotto di Mel, il dottor Gabriele De Battisti, che mi vuole bene come a un figlio e mi invita a salire sulla sua Topolino verde. Salgo sulla sua auto con il corpicino in braccio e lo portiamo alla cella mortuaria.

Piango e sono sopraffatto dalla sensazione di fragilità che avverto nei confronti delle sventure che ci possono accadere. Sento con precisione, forse per la prima volta, che la mia forza fisica-psichica-spirituale mai ce l’avrebbe fatta a salvare me stesso o qualcun altro dalla morte. La morte decide lei, per prima, e con ognuno di noi, se lasciar perdere, o meno, ancora per un po’…è la prima volta in vita mia che maturo questa banalissima evidenza e inizio a rifletterci seriamente di lì in avanti almeno una tre o quattro volte al giorno.

Nella cella mortuaria (è già passato mezzogiorno da un bel pezzo) il dottor De Battisti, aiutato dal dottor Mariano Mambrini, medico condotto dentista e ciclista a Villa di Villa, la frazione più grande e popolosa del Comune di Mel, sta redigendo una sommaria descrizione dei corpi che arrivano di continuo, con finalità medico-legali atte a una futura, possibile, identificazione.

A un certo punto il dottor De Battisti mi fa accompagnare a casa da qualcuno che non ricordo. E’ già molto buio e i cadaveri, lì dentro, sicuramente sono più di dieci. Fuori, presumo per fare la guardia di notte, due carabinieri che non ho mai visto girare per Mel.

Una volta a casa, mio nonno si limita a guardarmi e mentre mia nonna mi prepara qualcosa da mangiare, intima perentoriamente sia a lei sia a mia madre di non farmi delle domande. A me dice solo: “Co te à finì de magnàr, va a dormìr!”. “Quando hai finito di mangiare, vai a dormire!” Benedetto nonno Azio (Ignazio Chiarelli, grande mutilato della Prima Guerra mondiale) tu sì che ci sapevi fare con il disturbo da stress acuto post traumatico!

Non sappiamo ancora con esattezza che cosa sia successo, si accavallano notizie contraddittorie, durante il giorno ne ho sentite di tutti i colori, ma non mi va assolutamente di chiedere qualche aggiornamento a mia madre, a mia nonna, né tanto meno a mio nonno, che ha una faccia da far paura. Lui, dopo avermi detto quella frase lapidaria, salvifica e perentoria, va in camera sua ad ascoltare la sua radio, perché di quella che c’è in cucina non si fida.

Così, credo senza salutare, senza nemmeno fare la pipì. Me ne vado a dormire al piano sotto, in camera mia, con qualche flash-back percorrendo un corridoio al buio, e con le assi scricchiolanti del pavimento di legno, ma dormo lo stesso come un sasso, senza incubi.

 

Qualche giorno dopo, su “Il Gazzettino”, nel paginone della cronaca di Belluno, viene pubblicato un articolo, scritto dal medico condotto, nel quale si racconta di me col cadaverino in braccio, quando poi ben altro impegno mi sta attendendo nei giorni successivi. Quell’articolo lo avrei letto solo a distanza di anni, dietro insistenza di mio padre, e non avrei provato, nel leggerlo, emozioni particolari. Come leggere qualcosa che riguarda qualcuno che non conoscevo.

A Longarone abitano diversi studenti delle scuole superiori, per lo più dell’istituto tecnico industriale, che conosco bene per alcuni allenamenti e gare di atletica leggera. Frequentando il liceo classico (noto per la subalternità delle attività sportive, non gradite a quasi tutti gli studenti che lo frequentano, bravissimi, viceversa, nelle materie più “cerebrali”), mi ritrovo a praticare con assiduità discipline atletiche e con un discreto successo (getto del peso, lancio del disco e salto in lungo).

Ma a Longarone ci abita, soprattutto, una mia compagna di liceo di cui ho pochissime notizie, dall’esame di maturità, se non che si è iscritta a Padova, alla facoltà di Lettere e Filosofia, di nome Donatella.

La incontro una sola volta sul treno Calalzo-Padova, qualche mese prima di quell’ottobre tremendo, lei salita a Longarone e io a Feltre (da Mel a Feltre ci si arriva con una corriera della ditta Zasio che ha l’esclusiva per i paesi della sinistra Piave, mentre per la destra Piave c’è la ditta Buzzatti), ma nemmeno questa volta riesco a dirle che mi piace e tanto.

Sono infatti ancora posseduto dalla convinzione che un’altra ragazza, Rosetta, una classe dietro a me, che mi piaceva ancor più di lei e appena prima di lei, non mi volesse concedere i suoi favori per la mia bruttezza, i miei brufoli e per la mia balbuzie. Così un mio compagno di classe, che spero di rincontrare al più presto, arrivato a Belluno da poco tempo perché figlio di un funzionario statale che doveva cambiare sede di lavoro per ordini superiori da un momento all’altro, un ragazzo dal “sapor mediorientale”, dopo avermi chiesto, senza tante storie, se io ci tenevo così tanto a Rosetta, cosa che tutti o quasi, nel mio liceo sapevano, Rosetta compresa, (dato che riceveva le mie poesie d’amore tramite Francesco Piero Franchi, scrupolosissimo postino oltre che mio compagno di classe) e avendogli io risposto fantozzianamente: “Beh, un pochino sì, ma se piace anche a te, non ti rompo le scatole”, non ha perso tanto tempo e, qualche anno dopo, se l’è anche sposata.

Ma voglio lasciar perdere con i subbugli ormonali e confusionali, e torno al disastro che con gli innamoramenti tipici di quell’età non ha niente a che fare.

Per me, a questo punto, il 10 ottobre 1963, gli abitanti di Longarone sono tutti morti. Con questo pensiero ben piantato in testa passo le successive mie giornate e settimane, fino a quando, solo molti mesi dopo, vengo a sapere che Donatella è sana e salva e solo uno degli altri di Longarone, che conoscevo, si pensa che possa essere morto, ma non sono notizie certe. Uno dell’ITI, di cui non ricordo il nome, che correva i cento metri velocissimo, che mi aveva superato con scioltezza nell’ultima frazione della staffetta.

Il pomeriggio successivo al riposo della prima notte, terminata l’operazione del recupero dei cadaveri, riesco a contattare altri quattro scout del Gruppo A.S.C.I. Mel 1: Lanfranco Da Canal, 18 anni, di Farra di Mel, anche lui reduce, a reciproca insaputa, da un’operazione di recupero nella zona “delle Pagognane”, cioè un po’ più a monte del posto dove ho recuperato qualcosa anch’io. Gioacchino Lòt, 16 anni, di Col di Mel. I fratelli Renzo e Ivo Camin, 20 e 17 anni, di Marcador di Mel.

Decidiamo assieme di andare a Longarone a “dare una mano” e ci diamo appuntamento davanti alla pompa di benzina di uno dei due tassisti di Mel, per le sei della sera.

Perché così tardi, alle sei di sera? Il sole è già basso all’orizzonte, ma vogliamo partecipare, almeno in parte, a una cerimonia funebre in piazza, celebrata da Monsignor Vittorio Battistin, parroco di Mel. La cerimonia si svolge proprio davanti alla chiesa, per le sedici bare che sono dentro a un camion militare e dentro ogni bara un morto, o quel che ne resta.

Prima della fine della cerimonia funebre, ci ritroviamo dal tassista concordato, sullo strada provinciale sotto Mel.

Per portarci tutti e cinque, con uno zainone a testa e una tenda da campeggio (una Zingarella da quattro posti comodi che avevamo pagato, quattro anni prima, quarantamila lire) occorreva una macchina capiente e l’unica macchina capiente, allora, era quella di Eugenio Comèl, detto Genio, barista, benzinaio, meccanico e tassista. Una Seicento multipla, con il davanti a strapiombo e il motore dietro.

Partiamo in direzione di Longarone, seguendo il camion militare con dentro le sedici bare. Non sappiamo assolutamente che cosa possiamo fare, ma sicuramente non ce la facciamo a non andare su, a Longarone.

A Ponte nelle Alpi c’è uno sbarramento, non si può proseguire. Ci fermano i carabinieri e ci dicono che, per quella notte, dobbiamo fermarci lì. Poi, l’indomani mattina, possiamo chiedere un passaggio a un camion di militari, che sicuramente passerà di lì.

Mentre Lanfranco e gli altri piantano la tenda a venti metri dalla strada e ad altrettanti venti dal greto del Piave, io mi accingo a salutare e a ringraziare Comèl per la sua gentilezza.

Sono tempi in cui, per me, la nozione di “solidarietà” è un dato che “deve” essere ben radicato in tutti, soprattutto in una circostanza come quella. Già si sa che Longarone è sparita e Comèl sa bene che solo noi, di Mel, stiamo andando su a dare una mano. Beh, mi fa tanti auguri, ma mi chiede anche i soldi del viaggio. Ci rimango piuttosto male, ma non gli dico nulla e lo pago con almeno metà dei soldi che mio nonno mi ha dato prima di partire.

 

Questa notte per me è impossibile dormire perché sono ancora molto turbato dal comportamento di Comèl e perché, non conoscendo con esattezza ciò che è successo, ho il timore che, dalle montagne intorno, qualcosa possa ancora scatenarsi.

La mattina dopo, molto presto, come previsto dai carabinieri la sera prima, cominciano a passare dei mezzi sia militari che civili. Ci carica un camion di alpini che si stringono per far posto a me, Lanfranco ed a un altro signore sconosciuto con un basco nero in testa che, assieme a noi, sbucato dal nulla, sta facendo l’autostop. Gli altri tre di noi salgono su di un camion civile, che segue a ruota quello militare, e che trasporta assi di legno che, scopro qualche ora dopo, servono per costruire delle bare.

Lanfranco non perde l’occasione di fare la conoscenza di quel signore. Dice di essere arrivato in treno a Ponte nelle Alpi da Treviso, via Belluno, di aver dormito in un alberghetto di Ponte nelle Alpi, di essere un ex paracadutista dell’Aereonautica francese, di aver appena smesso di dare una mano a Skopje, capitale della Repubblica della Macedonia, dove un terremoto, quattro mesi prima, ha distrutto mezza città, con migliaia e migliaia di morti. Osservandolo bene, visto il suo modo di fare, penso che possa essere un ex della Legione Straniera. Non ricordo che cosa, esattamente, me l’abbia fatto pensare.

La sera stessa quel signore, invita tutti quelli che hanno lavorato come lui nel cimitero dalla mattina alla sera, a farsi una bella mangiata in una trattoria di Cadola e, cosa ancora più allettante, una bella bevuta di qualsiasi liquido bevibile che non sia latte. Offre lui. Non ricordo chi di noi, scout di Mel, ci va. Io non vado, perché non me la sento di interrompere il lavoro che sto facendo. Nemmeno Gioacchino Lòt, precisissimo nella sua incredibile e volonterosa ricostruzione dei fatti, ricorda chi, assieme a lui, ci sia andato. Ma ricorda benissimo di esserci andato, assieme a un’altra ventina di persone. Così scopre che quel signore è un medico francese, il che non esclude la Legione Straniera, ed è specializzato in situazioni d’Emergenza e Catastrofi.

I direttori delle operazioni al cimitero sono medici legali sloveni, i quali, nel 1963, sono ancora politicamente “oltre il muro” e certamente non desiderano che un medico francese, che probabilmente ne sa molto più di loro in situazioni d’Emergenza e Catastrofi, possa dire la sua con autorevolezza su quello che c’è da fare. Solo a distanza di molti anni, quando inizio a capire qualcosa del funzionamento dei rapporti diplomatici tra stati appartenenti ad alleanze diverse e contrapposte, comprendo la reticenza del medico francese a svelare la sua vera identità.

Ma, tornando a me e a Lanfranco sul camion militare, con gli alpini, lungo il viaggio su strade secondarie e a balzelloni, ci si dà dei vèci, a conferma di quanto detto prima sull’uso di questo termine.

Gli alpini sono tutti ragazzi veneti di venti, ventuno anni, provenienti da una caserma di Belluno. Alla guida del mezzo un sergente maggiore sui trentacinque anni, silenzioso e con i baffi e, al suo fianco, un sottotenente di complemento, di ventidue anni, con cui subito fraternizzo attraverso la finestrella tra il cassone e la cabina.

Scendiamo tutti in un luogo misterioso, il cui nome al momento non ricordo, anche se “prima” certamente ci sono già passato in Vespa con mio padre, sulla strada per Cortina d’Ampezzo, dove mio padre, per qualche mese, ha fatto il geometra per conto della birreria Pedavena: Fortogna, frazione di Longarone.

Un prato lungo e largo, con una parete di rocce, alberi e siepi selvatiche in fondo, dove si sistemano gli alpini.

È il luogo dove sono trasportati i cadaveri o i pezzi che di loro restano, da qualsiasi posto lungo il Piave, fino alla laguna veneta, vengono ritrovati.

Questa è, e non solo per me (ma per me, tragicamente, solo la prima) un’esperienza di incontro con la morte su larga scala, fatta di corpi, tantissimi corpi, in molti casi mutilati, pezzi di corpi e, quasi tutto, in via di decomposizione.

Il silenzio è totale e solo qualche singhiozzo in sordina si alterna al rumore di chiodi martellati sulle piccole croci in legno, accatastate in un angolo del prato, assieme alle bare, su cui Lanfranco si sta impegnando dal mattino appena arrivati e senza chiedere il permesso a nessuno: cinque assi, uno per il fondo, due lunghi per le pareti e due corti per il retro testa e i contro piedi. Sopra, per chiudere, ancora niente…i cadaveri, dentro sacche trasparenti di plastica, vengono coricati dentro, ma se ne devono vedere alcune caratteristiche corporee.

Solo a quel punto veniamo a conoscenza del fatto che la diga non è crollata e che le vittime non sono morte per l’urto dell’acqua o per annegamento, ma per lo schiacciamento e il soffocamento dovuto all’aria che ha preceduto quell’enorme quantità velocissima di acqua, alta 200 metri, che ha fatto crollare anche le case.

Le case, crollando, hanno seppellito o ucciso gente già morta o quasi. L’acqua, salendo sulle pendici dei monti sopra Longarone, e poi ridiscendendo, ha lavato via tutto e trascinato tutto nel Piave.

 

Longarone nel 1963, è un paese di emigranti. Ci vivono molte donne con anziani e bambini, mentre la maggior parte degli uomini lavora all’estero. Dobbiamo quindi prepararci ad accogliere questi emigranti che già cominciano a far ritorno sin dal primo giorno successivo al disastro.

Lo strazio del riconoscimento dei cadaveri. Chiedere le caratteristiche somatiche dei parenti che sperano di ritrovare. I corpi nudi accumulati, vengono portati lì con motocarri (anche con un Ape), e con camion ribaltabili che li scaricano a decine su quel prato, crescono, crescono di numero. All’inizio, appena arrivati (cinquantotto ore dopo la tragedia) ce ne sono qualche centinaio, e il giorno dopo se ne contano già più di ottocento!

A dirigere le prime operazioni di soccorso, come già ho scritto, sono medici legali sloveni. Appena noi arriviamo, saputo che sono uno studente di Medicina, mi arruolano all’istante, fornendomi di guanti di gomma, di un po’ di mascherine e delle precise indicazioni su quello che devo fare per tutto il tempo che riesco a restare lì.

I miei compiti consistono nel mettere i corpi dentro dei sacchi di plastica trasparente che hanno portato loro dalla Slovenia (mi sembra dall’Università di Lubiana) e nell’andare a un bancone d’ingresso, con una tenda sopra, per accogliere e “gestire” i parenti emigranti che stanno tornando. Quel bancone è presidiato da alcuni abitanti della zona che se la sono cavata, e ci pensano ben loro a stordire di sgnàpa, grappa, i parenti e a tenerli fermi tra mille bestemmie urlate.

A me spetta di chiedere ai parenti le caratteristiche fisiche di chi cercano, tornare in mezzo ai sacchi di plastica con i corpi dentro, guardare con attenzione se qualcuno di quei corpi corrisponde alla descrizione fornita e, in caso positivo, tirare giù il sacco di plastica e guardare meglio.

Per identificarli, oltre al sesso, all’età, al colore dei capelli, all’altezza, alla struttura fisica, devo controllare i segni di eventuali cicatrici (generalmente interventi chirurgici) i denti mancanti o i denti di metallo (il questionario sloveno è molto dettagliato!). Solo quando sono proprio sicuro, anche di notte con la pila, ritorno al banchetto, faccio un cenno di assenso ai familiari, ritorno con loro da quel corpo e cerco di cavarmela come meglio posso…

Renzo Camin ha piantato la tenda su una collinetta, alla destra dell’ingresso, dalla parte opposta a quella dove ci sono gli alpini, che il primo mattino, bestemmiando come veneti, devono stare fermi per sei ore, senza fare nulla, perché non arrivano “ordini superiori”.

A un certo punto il sottotenente, d’accordo con il sergente maggiore con i baffi, rischiando il carcere militare di Gaeta o di Peschiera, dà l’ordine ai soldati di rompere le righe e di cominciare ad aiutare tutti gli altri che già da parecchie ore di fila stanno lavorando.

Tra questi molti abitanti del luogo, molti ex alpini anche anziani con il loro inconfondibile cappello, provenienti da tutta Italia. E poi tutti noi, scout di Mel, uno di Belluno giunto prima di noi, che mi sembra sia Renzo Fant, e altri scout e rover che non riesco nemmeno a salutare. A venti metri di distanza, per il sudore che mi appanna sia gli occhiali sia gli occhi, non vedo per bene il loro distintivo regionale di appartenenza, cucito sulla manica destra, sotto quello indicante il gruppo e dunque la località esatta di provenienza.

A tutti questi, dal giorno dopo si vanno aggiungendo, a Fortogna, altri scout del gruppo di Feltre, che conosco bene e ci salutiamo da lontano con il tipico saluto scout, e altri scout e rover di altre province, soprattutto venete, ma non solo.

Gli scout, su ispirazione di Lanfranco, costruiscono casse da morto senza coperchio, per metterci dentro le salme contenute nei sacchetti di plastica trasparente e croci di legno sul cui braccio orizzontale va scritto il nome dei corpi che, via via, vengono riconosciuti.

Mentre a Cadola e a Longarone alcuni scout e rover di non so dove, sono arrivati addirittura prima di noi, da Mel.

Renzo non regge la vista e il contatto con i cadaveri, così si dà un gran daffare a distribuire a tutti, su ordine dei medici sloveni, bevande calde, soprattutto latte.

Lanfranco e gli altri sono impegnati a costruire bare e croci, in mezzo a un odore che non si può immaginare, se non si è mai stati vicini a corpi umani in decomposizione. Un odore che si mischia con quello di un liquido gettato a spruzzo sui vivi e sui morti dagli sloveni, un liquido misterioso che, mi dicono, serve a disinfettare e che avrei imparato a conoscere tre o quattro anni dopo, frequentando l’Istituto di Anatomia Patologica di Modena.

Fanno buttare anche dei sacchi di polvere bianca su molti resti di cadaveri, e questa no, non l’ho mai capita. Di che sostanza chimica si tratta? Non è solo calce.

Svolgo il mio compito ininterrottamente per tre giorni, con due notti in mezzo senza dormire, finché, sul finire del terzo giorno, cado svenuto sul prato, a faccia in giù. Non ricordo chi mi riporta a casa dai miei, a Mel, e nemmeno Lanfranco se lo ricorda. Lui rimane lassù con gli altri ancora per tre giorni.

Ho un totale vuoto di memoria sul periodo immediatamente successivo. Torno a Longarone, ma non a Fortogna, dopo tre o quattro mesi, con Giacchino Lòt e Renzo Camin, sull’automobile di quest’ultimo.

Il commissario nazionale dell’ASCI, Salvatore Salvatori, mi ha scritto a casa, a Mel, una lettera piena di elogi e mi ha chiesto di spedire a Roma, a casa sua, un ricordo simbolico della tragedia, da esporre a Bracciano, sede del campo scuola nazionale per capi di ognuna delle tre Branche dell’ASCI: lupetti, esploratori e rover. Ci si può andare solo dopo il compimento del ventunesimo anno ed io ci sarei andato dopo un anno e mezzo se, nel frattempo, non mi fossi allontanato dal mondo cattolico.

Nel frattempo, anche il commissario nazionale della Branca Esploratori, Gino Armeni, mi ha inviato, a casa, la comunicazione scritta di un particolare attestato in cui si certifica che il Riparto da me guidato è stato insignito del titolo onorifico di “Riparto Scout d’Onore”.

Ma torniamo alla richiesta che mi sta facendo Salvatore Salvatori.

Longarone non l’ho ancora vista, e ciò che più di tutto mi colpisce, non è tanto la parte distrutta, perché già me la sono immaginata per bene, ma sono le case tagliate in due, come burro da un coltello.

Cucine, salotti, camere da letto… zac! Segate a metà, con metà mobilia ancora intatta, a destra, verso il Cadore. E anche lì, come in tutte le catastrofi, c’erano stati dei ladri…

Longarone è azzerato a valle e ancora intatto a monte. Deve essere stato ben potente quel cuscino d’aria e quell’acqua, sparati come proiettili dalla gola tra le montagne dell’ex torrente Vajont!

Mi guardo intorno un po’, per trovare qualcosa di “significativo”. Sto pensando a un sasso o al mattone di una casa, ma getto l’occhio su di un piccolo triciclo rosso, tutto ammaccato e contorto, schiacciato dalle macerie delle case crollate o dai cingoli delle ruspe.

Lo prendo con me, tenendolo in braccio come avevo tenuto in braccio quel corpicino di due anni qualche mese prima, risalgo nella macchina di Renzo con Gioacchino e, una volta tornato a Mel, metto quel piccolo triciclo in un pacco che spedisco a Salvatore Salvatori, a Roma. Quel triciclo è tuttora esposto al Campo Scuola di Bracciano, ma non è più rosso: si è tutto arrugginito ed è un po’ verde.

Dopo un anno, un rappresentante del governo di allora (presidente del consiglio: Giovanni Leone, ex padre costituente, futuro presidente della Repubblica italiana prima di Pertini, avvocato penalista di grido, subito dopo la tragedia sperticatosi in promesse mai mantenute ai sopravvissuti, in seguito avvocato difensore dei misfatti dell’Enel) premia l’Associazione Scout Cattolici Italiani con una medaglia di bronzo al valor civile, consegnata a Rino Dolce, uno scout del Riparto Mel 1, che ha perso il padre, operaio su alla diga la sera della catastrofe, il cui corpo non è mai stato ritrovato.

Ecco perché ancor oggi non possiamo sapere il numero esatto delle vittime del Vajont, mentre i corpi ritrovati furono circa duemila.

Non tutti i parenti o gli amici degli “spariti” ne hanno denunciato la scomparsa o, anche se l’hanno fatto, la prefettura di Belluno ha fatto finta di niente, come nel caso di quella corriera di turisti tedeschi che passava di lì proprio a quell’ora.

E qui si comincia a entrare nella storia di una strage di Stato annunciata.

Queste cose le ho sapute tanti anni dopo, per merito di Marco Paolini con la “sua orazione civile”, solo nel 1997 e, da allora, ho cominciato a leggere e a vedere tutto quel che ho potuto, sul Vajont.

Mi sento dunque quasi costretto a indicare ai lettori di questo articolo, un’elencazione dei nomi degli autori di libri, o film, sul Vajont. Basta Google e/o Wikipedia e, girando un po’, si può sapere tutto, o quasi. Dunque: Tina Merlin, Sandro Canestrini, Marco Paolini, Marco Paolini e Gabriele Vacis, Marco Paolini e Oliviero Ponte di Pino, Maurizio Reberschak, Mauro Corona, Gianni Cameri, Renzo Martinelli, Lucia Vastano, Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, Comune di Longarone, Fortogna, Vajont, www.vajont.net, www.vajont.info, www.fondazionevajont.org.

Della sitografia fornitami, ringrazio Francesco Piero Franchi.

Comunque già allora, e da qualche anno, si diceva che alla diga stava succedendo qualcosa: c’era chi aveva denunciato irregolarità. Ma soprattutto responsabilità pesanti e criminali.

Le responsabilità civili e penali della strage sono anzitutto della S.A.D.E. (Società Adriatica Di Elettricità), società privata che, sia durante il ventennio fascista, sia in piena seconda guerra mondiale, aveva ottenuto il permesso di entrare in possesso del torrente Vajont senza pagare una lira, e di farci una fortuna con i soldi dell’elettricità erogata a tutto il Veneto, costruendoci una diga, pagata ovviamente dallo Stato, la diga più alta del mondo); poi dell’E.N.E.L. (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica) che un anno prima della tragedia aveva “comperato” dalla S.A.D.E. sia la diga che tutti i proventi futuri previsti.

Cioè: un semplice passaggio di proprietà per conto dello Stato, all’interno di se stesso, senza che nessuna persona fisica potesse essere bene individuata e, soprattutto, senza che nessuno, se non lo Stato, sborsasse un soldo per l’acquisto, ed è qui la “genialata” del sopra citato Giovanni Leone; dei silenzi compiacenti di politici locali, regionali e nazionali; di tecnici richiesti di svolgere perizie sia sull’affidabilità della diga, sia sulla situazione idrogeologica circostante.

Ma, a questo punto, cioé a livello di perizie idrogeologiche, c’è un’encomiabile eccezione. Si tratta della perizia di un eminente geologo austriaco, Leopold Muller, la cui consulenza era stata richiesta dalla S.A.D.E. stessa, ma che era stata ignorata, vista la sua lungimirante conclusione che non lasciava dubbi su una tragedia immane, se la diga fosse stata messa in funzione “a regime”, cioè con una pressione “intollerabile” per il Monte Toc, che non a caso si chiama Toc, perché da sempre “al casca do a toc”, “casca giù a pezzi”. Secondo un’altra versione, Toc significherebbe, viceversa, “fradicio”. La sera del 9 Ottobre 1963, comunque sia il significato del suo nome, il Monte Toc ha proprio smesso di tollerare, ed è franato tutto d’un botto sull’acqua sottostante, prendendo le mosse da una spaccatura, prevista dal Muller, a “M” maiuscola, che non è stato né un miracolo mariano, né un omaggio del Monte all’inziale del cognome del geologo austriaco.

Le responsabilità della tragedia, sia pure a diversi livelli, sono anche dei funzionari provinciali, regionali e nazionali, anche d’alto rango istituzionale come già ho scritto e riscritto; della stampa e dei media già attivi nel non aver capito nulla di quello che, quella sera, è accaduto, tanto da stendere non un velo, ma una trapunta pietosa, su quanto sia l’ottimo Giorgio Bocca (su “Il Giorno” dell’undici Ottobre 1963) che, soprattutto, ahimé, il mio amato bellunese Dino Buzzati, ma da quel giorno non più, da me, così tanto amato (sul “Corriere della sera”, dell’undici Ottobre 1963) relazionano sulla tragedia, ambedue ascrivendo la responsabilità di quanto accaduto solo, ed esclusivamente, alla forza cieca della Natura.

Dino Buzzati, nato e cresciuto a due passi da Belluno, trasferitosi a Milano, non ha mai fatto nulla per Belluno e per i bellunesi, quando era già, ed è tuttora, un “grande” della letteratura italiana del Novecento, se non scrivere qualche pagina scoperta per caso (a Buzzati, o a qualcuno della sua famiglia travagliata, probabilmente non interessava molto) dall’ avvocato Perale (che per primo lo ha fatto stampare come un libretto con magnifiche fotografie) fratello del poeta bellunese Giano Perale, farmacista e amico di mio nonno.

Ora è stato ristampato dalla Comunità Montana Bellunese, in molte più copie, con il titolo originario: “La mia Belluno”. Rosetta Girotto me lo ha spedito poco tempo fa. Una perla, nella sterminata produzione di Dino Buzzati! Lui, che ancora tornava nella sua villa vicino a Belluno ogni anno, d’estate, almeno per qualche settimana, addirittura scrive nell’articolo citato, e non solo da me “incriminato”: “La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico”. Dino Buzzati! Di fronte a quel macello pensa all’estetica! L’autore de “Il deserto dei tartari”, dei “Sessanta racconti”, di “Un amore!!! Tre fra le letture da me preferite negli anni del liceo classico “Tiziano Vecellio”, di Belluno.

Per non parlare, poi, di Indro Montanelli che, dopo la sciagura, in buona compagnia dei manifesti affissi in tutta Italia dalla Democrazia cristiana con la scritta: “Comunisti sciacalli”, sulle pagine de “La Domenica del Corriere”, anche lui taccia di “sciacallaggio” Tina Merlin, ex staffetta partigiana, giornalista de “l’Unità”, corrispondente, allora, da Belluno, e in seguito da Milano, Vicenza e Venezia, residente a Trichiana, a quattro chilometri dal mio paese, che scriveva già da tempo sia della tragedia annunciata, sia dei colpevoli assassini di Stato, con eroico coraggio, molto solitario, ma fortunatamente ben sostenuta da suo marito ex partigiano Aldo Sirena e da molti residenti nella zona di Erto e Casso, futura consigliere provinciale di Belluno per il Pci dal 1964 al 1970.

Le copie de “l’Unità” che, nel 1963, venivano vendute nel suo e nel mio comune, erano in tutto cinque, e chi le comperava (tranne Aldo Cavalét, uno dei due proprietari delle due macellerie esistenti a Mel, che quando era libero da impegni etilici ne faceva orgogliosamente una gran mostra) le doveva nascondere tra le pagine de “Il Gazzettino”, per non subire ritorsioni di vario genere da parte di democristiani, tutti ex fascisti convinti, ma soprattutto ex “neutrali” che, a quel punto, si erano già “riciclati” sin dall’indomani della fine della guerra, visto che con la Democrazia Cristiana si potevano fare molti soldi, soprattutto quelli “che i à studià”, “che hanno studiato”, e puntavano a qualche carica pubblica redditizia, puntualmente, prima o poi, ottenuta.

Tina Merlin, nel “prima”, scrive anzitutto ciò che apprende dai suoi contatti con gli abitanti di Erto e Casso (paesi che erano, e sono, dietro la diga, quando ancora “il dietro” era in provincia di Udine – ora di Pordenone – e “il davanti”, con il Piave, Longarone e gli altri paesi spariti, miracolosamente restati indenni o quasi, e in parte ricostruiti intorno) che continuano a sentire inquietanti rumori provenire dal Monte Toc, e scrive anche ciò che studia con attenzione sui documenti “giusti”, a proposito dello scandaloso comportamento sia delle Istituzioni, sia della S.A.D.E.

Nel “dopo”, Tina Merlin continua a scrivere su “l’Unità” puntando dritto il dito contro i veri responsabili, ed è a questo punto che entra in scena il già citato Indro Montanelli.

Il libro di Tina Merlin “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe” deve aspettare vent’anni per trovare un editore che lo pubblichi. Che sia perché è stata denunciata “per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”? Tina Merlin, comunque, viene assolta da quel reato, a Milano, ma al giudice che l’assolve non passa per niente nella testa che, forse, c’è da riaprire delle indagini nel merito di quanto Tina Merlin sta denunciando.

D’altronde, Sandro Canestrini, difensore di parte civile delle vittime del Vajont deve arrivare fino in Cassazione, che sposta il processo da Belluno a L’Aquila, per legittima suspicione. Per assistere, impotente, nonostante una sua magnifica arringa, un’elegia che dovrebbe essere introdotta obbligatoriamente nei programmi di studio delle scuole di ogni ordine e grado, alla sentenza definitiva che commina pene molto lievi a degli assassini, e ancora una volta, prende le vittime per i fondelli. L’Aquila! Tragica anticipazione di un’altra, ben più recente catastrofe, ma con la stessa presa per i fondelli delle vittime.

L’arringa di Canestrini è la parte più consistente del suo libro “Vajont: genocidio di poveri”, Cierre Edizioni, 2003.

Tina Merlin e Sandro Canestrini, in occasioni e in contesti diversi, ma sempre in difesa delle vittime, e in accusa degli speculatori assassini, hanno contro di loro solo una parte del Psdi e del Psi., ma tutta la Democrazia cristiana, a partire proprio da Giovanni Leone e Benigno Zaccagnini in giù, tutta ma proprio tutta. Va però precisato che c’è una differenza tra i due citati: diversamente da Zaccagnini, che è sempre stato una persona onesta, e dunque tormentata per le tendenze criminali di molti dei suoi “amici” (?), Leone ha interessi molto personali, come già specificato sopra, nell’attaccare e sputtanare Tina Merlin.

Ora concludo con qualche annotazione, ancora molto personale, riguardante la mia esperienza.

Desidero, allora, scrivere qualcosa sulla paura, anche se su questo tema ho già scritto molto, essendo io, oltre che un chiacchierone, anche un grafomane.

La madre di tutte le paure è la paura della morte, perché la morte simboleggia ciò che più ci è ignoto e ciò che è meno controllabile. Facendo una leggera digressione filosofica, mi viene una domanda: se la madre di tutte le paure è la Morte, chi è il padre? Il padre è la Vita, indissolubile compagno della Morte.

Vivo davvero, in quei giorni, e sulla mia pelle, un’esperienza legata alla morte, alla paura e alle conseguenze che ne possono derivare. Nei giorni di quell’evento, lì al Vajont, sicuramente avverto con precisione la paura di qualcosa che può succedere, e all’improvviso. Una paura che oggi chiamerei paura della transitorietà, dell’impermanenza.

Essere di fronte a un’evenienza che di colpo spazza via migliaia di persone… ecco, penso che la paura della morte affiora e lentamente, ma inesorabilmente ci possiede, perché non la si elabora sufficientemente quando ancora, almeno statisticamente, ne siamo un po’ lontani. Se realizziamo profondamente che siamo davvero transitori e che davvero la nostra vita può terminare in qualsiasi momento, siamo leggermente più sereni.

Nelle tradizioni religiose indiane che ho studiato a fondo, ed in parte ho conosciuto, per esempio, ci si mette di fronte alla pira funeraria e si assiste in silenzio, per tutto il tempo che si vuole, a quello che succede. Osservare il cadavere che brucia lentamente e meditare in solitudine è importante, altrimenti si rischia di rifugiarsi in considerazioni filosofiche solo teoriche.

Ho vissuto, in occasione sia della tragedia del Vajont, sia in quella del terremoto del Friuli tredici anni dopo, sia in occasione di sventure molto personali, sia all’improvviso, sia in meditazione-preghiera-contemplazione, la precipitazione nel mio vuoto interiore, la perdita di me stesso, dei miei confini, delle mie forme, e parallelamente ho avvertito un’energia allo stato puro.

Ritorno al cimitero di Fortogna dopo un anno dalla tragedia, con i Gruppi scout di Feltre, Belluno e Mel. In quest’occasione, il più alto in grado degli scout, rover e capi presenti, è il Commissario Regionale dell’A.S.C.I. per la Branca Esploratori del Veneto, Carlo Valerio, il quale presenzia alla “Promessa Scout” di qualche novizio, tra i quali il già citato Rino Dolce, orfano di padre vittima del disastro.

Nel 1964, in quel luogo, ci sono ancora solo arbusti, prato e croci. E tanti morti, sotto.

Ci ritorno molti anni dopo, quando già il Cimitero di Fortogna comincia ad essere un monumento nazionale, simile ai cimiteri militari ben tenuti, con le lapidi piccolissime riportanti, quasi tutte, il nome e/o l’età, generalmente tutte due le cose, di chi ci sta lì sotto.

Lapidi in file e righe ordinatissime, nel verde brillante dell’erbetta ben curata. Piccole lapidi con i nomi anche di chi mai è stato riconosciuto per lo stato in cui sono i suoi resti al momento del suo ritrovamento, piccole lapidi con il nome di qualcuno di cui non è stato ritrovato nulla, ma la cui scomparsa, attorno alle ore cruciali, è stata segnalata da qualche parente. All’entrata una costruzione, un museo che purtroppo la domenica è chiuso, ma guardando attraverso i vetri vi si scorgono fotografie, box, dépliants della Pro Loco di Longarone.

All’interno del Cimitero, sulla destra, una stele di vetro accoglie i visitatori con una frase, tradotta in dodici lingue: “Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblio della memoria”.

Questa frase mi commuove, ma mi commuove soprattutto perché il nome dell’autrice è Rosetta Girotto Cannarella.

Di Rosetta, lo dico nuovamente, ero stato follemente e fantozziamente innamorato al liceo. Rosetta ha la passione delle lingue antiche, oltre che aver insegnato qualche materia letteraria proprio a Longarone. Gli allievi di Rosetta, benevolmente, da quei tempi, chiamano quell’obelisco “la Stele di Rosetta”, con riferimento umoristico ad un’altra stele e ad un’altra Rosetta.

Concludo con un ricordo della diga, e dedico il ricordo a mio padre.

Negli anni in cui frequento le medie (o il ginnasio, non ricordo bene) mio padre, una manciata d’anni prima della tragedia, mi accompagna su, alla diga, con la sua Vespa color Vespa anni Cinquanta. Allora, chi mai poteva pensare che sarebbe successo quel che è successo dieci anni dopo?

Assieme camminiamo avanti e indietro due o tre volte, lungo il camminamento proprio in cima alla diga: una stradina lunga lunga, delimitata a valle e a monte solo da una ringhiera e da una rete bassa. Se uno cammina lassù, e magari all’improvviso, come spesso in montagna accade, arriva una folata di vento particolarmente forte, le reti e le ringhiere non sono sufficienti per consentire a qualche Vigile del fuoco o a qualche poliziotto, di ritrovare qualcosa di significativo di ciò che resta del corpo di chi è volato via, né da una parte, né dall’altra.

A 15 anni, amante delle esperienze “estreme” che, a quei tempi, coinvolgevano solo il corpo fisico, scavalco una ringhiera che si può scavalcare anche senza tanta agilità e, tenendomi ben stretto a un paletto di ferro, mi sporgo più che posso verso Longarone, avendo sotto di me il vuoto, un vuoto di 261 metri.

A questo punto, tutto contento, chiamo mio padre: “Papà, guarda che bello!”.

Le montagne attorno piene di alberi d’ogni colore, sia a destra che a sinistra. Laggiù in fondo vedo una parte di Longarone, sento il suono tipico dell’acqua di un torrente molto sotto di me, che poi è il Vajont. L’altra parte del camminamento non mi interessa perché c’è solo un laghetto che non ho la minima idea a che cosa possa servire (ricordo che il “mostro” ha iniziato ad essere operativo solo nel 1960).

Il risultato però è lo sguardo di ghiaccio di mio padre, che già, di suo, ha gli occhi azzurro chiari. Non si è, fino a questo punto, accorto di nulla. Ed è questo ciò di cui si rimprovera di più, una volta a casa, con mia madre.

Non mi sgrida, non mi picchia, è l’uomo più buono che io abbia mai conosciuto. Buono davvero, ma che, avendo combattuto in guerra come ufficiale dei carabinieri in luoghi (ora solo turistici, con centinaia di sedie a sdraio sopra cadaveri di cui nessuno, se non qualche vecchio del posto, sa nulla) dove si uccideva con il silenzio, o con una sola parola ed il coltello, più che con le armi da fuoco, non cade nella trappola di rispondermi, quando, tornando in Vespa a Mel, io fingo di interessarmi alle modalità di funzionamento di una diga. Niente. Silenzio. Il suo volto impassibile.

Ma una volta a casa, la sera, a Mel, dopo una mia spontanea confessione, dato che mio padre ovviamente tace, ma ha sempre quello sguardo, mio nonno, mia nonna e soprattutto mia madre, vengono a conoscenza della mia bravata. Per me, a questo punto, inizia un Vajont domestico, durato almeno una settimana, senza morti, ma con la mia anima ferita dalla vergogna per aver fatto qualcosa di tanto stupido.

Mio nonno si limita a dirmi: “Te piaséa far l’eroe, ah! Te vede ben a far almanco tre mesi de trincea, dopo se pol parlar de far i eroi!”. “Ti piaceva fare l’eroe, eh? Ti vedo bene a fare almeno tre mesi di trincea, dopo si può parlare di fare gli eroi!”.

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Sono passati dieci anni da quando scrissi su questo stesso giornale l’articolo sino qui riportato. Era diverso solo il titolo: “Vajont. Io c’ero”.

Di notevole, da allora, c’è stato un proliferare di dibattiti e presentazioni di libri-inchiesta sulla tragedia. Riporto anche la mail del Comitato per i sopravvissuti del Vajont, che non ho citato nell’articolo di dieci anni fa, fondato da cinque persone nel 2001: info@sopravvissutivajont.org

Delle persone da me citate nell’articolo precedente, sono morti i miei amici scout Lanfranco Da Canal, Renzo Camin ed Ernesto Perera. Dei cinque che eravamo in quei giorni siamo dunque rimasti in tre: di Ivo Camin non sono riuscito ad avere notizie, anche se a Gioacchino Lòt sembra che sia ancora vivo. Di Gioacchino Lòt, da lui stesso ho saputo, qualche giorno fa, che non riesce a muoversi da casa per dolori imponenti, che si trascina da anni. E’ morto anche Alberto Cannarella, il mio compagno di classe che si era sposato con Rosetta. Degli scout citati di Mel, Treviso, Belluno e Feltre, non so più niente. La cosa mi spiace non poco, ma mi arrendo al fatto che una relazione si mantiene solo se si è almeno in due.

Tutte le altre persone ricordate erano morte già dieci anni fa.