Vittoria Nenni N.31635 di Auschwitz, morire per i propri ideali

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La cruda morte per volere dei nazisti della terzogenita del leader socialista romagnolo Pietro Nenni, per motivi che rimangono ignoti non è né molto nota, né celebrata se non in alcuni brevi periodi e sostanzialmente dal Psi come monito contro l’orrore e la violenza delle dittature.

Rientra in quelle ‘piccole storie’ che hanno travolto in anni bui milioni di persone lasciando ferite profonde eppure un senso di invincibilità dei valori della libertà e della giustizia anche sociale.
In due parole di quei valori socialisti che il tempo e la repressione non sono mai riusciti a scalfire. Ne parla, con accuratezza e umanità, Antonio Tedesco in ‘Vittoria Nenni N.31635 di Auschwitz’.

Il libro, pubblicato da Arcadia Edizioni (16 euro, pp 221) e con la prefazione di Benedetto Attili, fa capire già dal titolo la fine di Vivà come era affettuosamente chiamata fin da piccola una donna che è morta con fierezza – come il marito – per i suoi ideali.
La famiglia di Nenni fu costretta alla fuga oltralpe dall’Italia fascista e prese parte attivamente alla Resistenza francese. Per Vittoria questo volle dire la prigionia nel carcere di Romainville e poi la fatale deportazione nel famigerato campo di concentramento di Auschwitz Birkenau insieme ad altre 230 donne di cui solo 49 tornarono. Non cercò di salvarsi, aiutò le compagne di lotta fino alla fine. Poteva scampare alla morte rivendicando la nazionalità italiana, poteva evitare la deportazione. Poteva forse sopravvivere durante la detenzione, ma volle cancellare i peculiari connotati nazionali per diventare coscienza – si legge nel libro – di lotta europea contro il nazifascismo.

Se emergono toccanti particolari degli ultimi giorni di vita di un’eroina dimenticata, non meno dura fu la vita di Pietro Nenni e della famiglia durante l’esilio. Una povertà fino al limite della sopravvivenza che mai però il segretario socialista fece emergere dopo la Liberazione. Così come nascose la disperazione per la morte della figlia che lo accompagnò fino alla morte. A salvarlo la fede in un mondo giusto e migliore cui lui e il Socialismo avevano contributo.
La ‘piccola storia’ di Vivà rimase solo nell’orbita del partito con alcune amministrazioni comunali che le dedicarono asili, strade e quartieri. Furono le donne socialiste e l’associazione Amici dell’Avanti a ricordarla. Ma la sua tragica vicenda non ha ‘sfondato’ mediaticamente. Forse ora è giunto il momento di renderle il tributo che merita.