A deporre il corpo senza vita di Saman Abbas nella fossa a tre metri di profondità dove la ragazza è stata poi ritrovata il 18 novembre del 2022, nei pressi di un casolare diroccato della Bassa Reggiana, sono state “come minimo due persone”: è questa la convinzione del perito archeologo forense Dominic Salsarola, che ha risposto così alle domande della procuratrice generale Silvia Marzocchi durante l’audizione in aula davanti alla Corte d’appello di Bologna, dove si sta celebrando il secondo grado del processo per l’omicidio della diciottenne pakistana.
Salsarola ha sottolineato come la salma della giovane sia stata adagiata “in modo particolarmente ordinato, in posizione supina, con lo sguardo rivolto verso il cielo, le braccia spostate verso destra”. Deposta, ha spiegato il perito, “quasi con ‘rispetto’, anche se rispetto forse non è la parola giusta. Come un defunto normale”. Saman, ha detto ancora Salsarola, “è stata calata” nella fossa, “non buttata”, e per questo motivo è difficile che a farlo in quel modo possa essere stata una sola persona.
Saman Abbas svanì nel nulla nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021 dalla sua abitazione di Novellara e fu ritrovata senza vita dopo un anno e mezzo, sepolta nelle campagne novellaresi, non lontano da dove aveva vissuto.
In primo grado sono stati condannati all’ergastolo la madre Nazia Shaheen e il marito Shabbar Abbas, mentre lo zio della vittima, Danish Hasnain, è stato condannato a 14 anni di reclusione. Fu proprio quest’ultimo, quando era già in carcere, a indicare agli inquirenti il luogo in cui cercare il cadavere della ragazza. Sono stati assolti in primo grado, invece, i cugini della ragazza, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, anche se la Procura di Reggio ha impugnato la sentenza in appello, convinta che anche loro due siano stati in qualche modo coinvolti nell’omicidio della giovane.







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