Per il mio 50esimo l’udienza dal Papa

Don Giuseppe Dossetti

Per il cinquantesimo anniversario della mia ordinazione, mi hanno regalato un viaggio a Roma, per partecipare all’udienza generale che il Papa tiene al mercoledì.
Oltre alle risonanze personali che ne ho tratto. Il suo discorso mi sembra abbia dato alcuni suggerimenti essenziali, per vivere questo nostro tempo difficile, per non sciuparlo e per farlo servire a una vera riforma e trasformazione.

Il tema era la libertà, secondo la Lettera ai Galati di san Paolo. Per l’apostolo, dice il Papa, “essa è tutt’altro che «un pretesto per la carne» (Gal 5,13): la libertà, cioè, non è un vivere libertino, secondo la carne ovvero secondo l’istinto, le voglie individuali e le proprie pulsioni egoistiche; al contrario, la libertà di Gesù ci conduce a essere «a servizio gli uni degli altri». Ma questo è schiavitù? Eh sì, la libertà in Cristo ha qualche “schiavitù”, qualche dimensione che ci porta al servizio, a vivere per gli altri. La vera libertà, in altre parole, si esprime pienamente nella carità. Ancora una volta ci troviamo davanti al paradosso del Vangelo: siamo liberi nel servire, non nel fare quello che vogliamo. Siamo liberi nel servire, e lì viene la libertà; ci troviamo pienamente nella misura in cui ci doniamo”.

“Sappiamo – prosegue Francesco – che una delle concezioni moderne più diffuse sulla libertà è questa: “la mia libertà finisce dove comincia la tua”. Ma qui manca la relazione, il rapporto! È una visione individualistica. Invece, chi ha ricevuto il dono della liberazione operata da Gesù non può pensare che la libertà consista nello stare lontano dagli altri, sentendoli come fastidi, non può vedere l’essere umano arroccato in se stesso, ma sempre inserito in una comunità. La dimensione sociale è fondamentale per i cristiani, e consente loro di guardare al bene comune e non all’interesse privato. Soprattutto in questo momento storico, abbiamo bisogno di riscoprire la dimensione comunitaria, non individualista, della libertà: la pandemia ci ha insegnato che abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma non basta saperlo, occorre sceglierlo ogni giorno concretamente, decidere su quella strada. Diciamo e crediamo che gli altri non sono un ostacolo alla mia libertà, ma sono la possibilità per realizzarla pienamente. Perché la nostra libertà nasce dall’amore di Dio e cresce nella carità”.

“Non c’è libertà senza amore. La libertà egoistica del fare quello che voglio non è libertà, perché torna su se stessa, non è feconda. Insomma, se la libertà non è a servizio – questo è il test – se la libertà non è a servizio del bene rischia di essere sterile e non portare frutto. Invece, la libertà animata dall’amore conduce verso i poveri, riconoscendo nei loro volti quello di Cristo”.

Qualcuno mi ha chiesto se, dopo la pandemia, saremo migliori o peggiori. Non credo che ci saranno conseguenze automatiche: tutto dipende dalla nostra decisione, se accoglieremo quell’insegnamento che è sotto i nostri occhi, che cioè siamo un corpo solo, che la nostra libertà dipende dalla libertà degli altri, che la mia libertà cresce, se io mi metto al servizio dei poveri.

Quando si dicono queste cose, si rischia di passare per visionari o per persone che fanno un discorso confessionale e quindi di parte.

Certo, dire queste cose impegna alla coerenza, altrimenti, come rimprovera Gesù ai farisei, siamo come coloro “che dicono e non fanno” (Mt 23,3) e, cosa ancora più grave, per colpa nostra “il Nome di Dio è bestemmiato tra le genti” (Rm 2,24).

Tuttavia, un effetto mi pare irreversibile: il fastidio, ancora più diffuso e esigente, di fronte ai discorsi vuoti, ma anche il desiderio di parole umili e forti, come quelle del nostro Presidente Mattarella. Si avverte, mi sembra, che le nostre risposte debbano essere meno sicure di sé, ma che abbiamo in comune qualcosa di prezioso, le domande. Questo dovrebbe portarci a un maggior ascolto reciproco, a un interesse per i pensieri e i sentimenti degli altri.

Ancora una volta, però, come dice il Papa, il test è il rapporto con i poveri. Se non siamo capaci di ascoltarli, vuol dire che siamo ancora rinchiusi nel nostro club di privilegiati e che ci raccontiamo gli uni gli altri quello che già pensiamo di sapere. Questo vale anche per il Sinodo: il cammino iniziato in queste settimane avrà senso e contribuirà alla riforma della Chiesa, se porterà le comunità cristiane ad ascoltare coloro che in essa sono i piccoli e quanti stanno fuori dai suoi confini visibili, ma che non dovrebbero essere estranei al suo cuore.