“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”

Il Vangelo della domenica

Domenica della Santissima Trinità, Anno C – 16 giugno 2019

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,12-15)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.

C’è una “verità pesante”: essa sola è la chiave per rivelare all’uomo il mistero della vita e riattivare la speranza. Ma essa è talmente pesante che l’uomo ne rifugge e solo un dono, accolto con umiltà, gli permette di accettarla. Questa verità è la croce di Gesù, Dio che muore di una morte umana.

Il Dio crocifisso distrugge ogni presunzione dell’uomo: chi può vantarsi, chi può dire “Io non c’entro!”? Anche il cinico, che ritiene che la storia sia soltanto il risultato di forze cieche, dovrà pure interrogarsi, prima di volgere le spalle al dolore di un Dio; e chi si interroga di fronte al dolore dell’uomo, potrà sostare pensoso di fronte all’Innocente trafitto.

Quale merito può rivendicare l’uomo, se sono stati i giusti della legge, i potenti, gli uomini superiori a condannarlo? Ma, nello stesso tempo, una nuova parola affiora alla coscienza di chi guarda, la parola “grazia”, cioè la misericordia, il perdono, l’amore gratuito.

Dio si rivela nella croce di Gesù. Questo è il paradosso, che Paolo ha ben presente: “I Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza; noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti, ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Corinzi 1,22-25).

Dio si rivela come amore: un amore originario, incondizionato, sicché Gesù ci rivela il nome che lo riassume: Padre. Questo amore vuole raggiungere ogni uomo, per questo non esita di fronte alla sofferenza estrema della croce, perché nessuno sia escluso. Ma lo scopo è la comunione, l’inclusione dell’uomo in questo amore, e non per i pochi o i molti anni di questa vita, ma per sempre.

L’amore, infatti, di natura sua vuole comunicarsi e includere in sé l’amato: ma quando Dio si rivolge al mondo, ribelle e peccatore, il suo dono non può prendere altra forma che quella della croce; altrimenti egli non potrebbe raggiungere l’ultimo degli uomini nell’abisso del suo peccato.

Tuttavia il dono del Figlio non può restare lo spettacolo che l’uomo contempla dall’esterno: ciò che si è compiuto a Gerusalemme e che viene celebrato nella liturgia è l’offerta rivolta alla creatura di lasciarsi introdurre nella relazione del Padre e del Figlio. Questo può avvenire solo grazie allo Spirito Santo, Dio in noi, che costruisce la nostra risposta, ci “guida a tutta la verità”: nel linguaggio giovanneo, la “verità” è la realtà intima di Dio che si comunica all’uomo.

La Trinità è dunque un mistero di comunione, di un Dio che ama l’uomo al punto di volerlo introdurre nella sua stessa vita. Ma a coloro ai quali interessa solo la potenza di Dio, la Trinità non dice nulla.

Erik Peterson, nel suo libro “Il monoteismo come problema politico”, ci ricorda che gli imperatori dopo Costantino negavano la Trinità, perché dall’uguaglianza delle Persone divine sarebbe derivata l’uguaglianza delle persone umane, distruggendo il principio gerarchico, necessario per l’ordine del mondo.

L’Islam la nega, proprio perché nega nello stesso tempo la morte in croce di Gesù: Dio non può abbassarsi veramente al livello dell’uomo (la morte ne è la condizione) perché, in ultima analisi, al Dio dell’Islam l’uomo non interessa veramente; Egli è benigno verso la sua creatura, le dona i principi del ben vivere e l’indicazione per ottenere la felicità dopo la morte, ma non può accettare che l’uomo entri veramente nella vita divina. Ma anche in ambiente cristiano, la Trinità imbarazza coloro che riducono la fede all’etica e la salvezza a una felicità non meglio definita, che meritiamo con le buone opere.

Infatti la Trinità rivela che Dio non è il legislatore e il giudice, ma che egli è l’origine: nulla potremmo se egli non ci amasse per primo. E nello stesso tempo egli è il compimento, poiché la “salvezza” altro non è che la comunione, la gioia dell’incontro e dell’inclusione nell’amore divino: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24).

La Trinità richiede una forma di Chiesa accogliente e fraterna, meno custode della moralità e dell’ordine e più compagna di strada dell’uomo, ministra di speranza, capace di porgere consolazione.