L’Italia del NO

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C’è una malattia silenziosa che attraversa l’Italia da decenni. Non ha bisogno di partiti né di leader, non si presenta alle elezioni e non compare nei sondaggi. Eppure vince quasi sempre. È l’attitudine a dire No. No Tav, No Muos, No Ponte, No rigassificatori, No inceneritori, No impianti eolici, No termovalorizzatori. Ogni progetto, ogni infrastruttura, ogni tentativo di cambiamento – grande o piccolo che sia – incontra puntualmente un muro di rifiuto. La protesta si veste di buone ragioni ambientali, giuridiche, sociali. Ma sotto la superficie delle carte bollate e delle assemblee cittadine, cova spesso qualcosa di più profondo: un atteggiamento psicologico, quasi antropologico, di rifiuto pregiudiziale. Non si contesta il merito, si respinge l’idea stessa del fare.

È la politica del No che si fa cultura. Una cultura che si ammanta di virtù civiche ma si nutre di sospetto, paura e immobilismo. Un disagio diffuso che cerca nella negazione una forma di consolazione. Dire No diventa un atto identitario, un segno di purezza, una scorciatoia per non sporcarsi le mani con la complessità del reale. Ma soprattutto diventa una forma di potere: il potere di bloccare.

La radice di questa attitudine non è solo ideologica, ma psicologica. C’è dentro una frustrazione accumulata, un senso di impotenza trasformato in veto. Non potendo cambiare il mondo, lo si impedisce. Non potendo costruire, si demolisce la possibilità stessa di costruire. È una postura difensiva, reattiva, che si maschera da resistenza ma spesso coincide con una rinuncia a pensare in grande.

Naturalmente il dissenso è legittimo, anzi necessario in una democrazia. Ma qui non si tratta di obiezione ragionata: si tratta di automatismo. Una reazione riflessa, pavloviana, in cui il No precede il pensiero. Il Ponte sullo Stretto? Disastro ambientale. L’alta velocità? Scempio del territorio. I termovalorizzatori? Pericolo per la salute. Si parte da una conclusione, e solo dopo si cercano gli argomenti per giustificarla.

Così l’Italia resta ferma. Si sfilacciano i legami tra Nord e Sud, si perdono treni, opportunità, credibilità. Il mondo corre e noi ci accampiamo con lo striscione. Servirebbe, oggi più che mai, un’educazione al Sì. Un Sì che non è supina accettazione, ma capacità di valutare, distinguere, scegliere. Un Sì alla responsabilità, alla complessità, alla modernità. Un Sì al futuro.

Ma per pronunciarlo bisogna uscire dalla comfort zone del rifiuto. E accettare che ogni opera comporta un rischio, ogni decisione una quota di incertezza, ogni progresso una dose di conflitto. La vera sfida politica – e civile – è governare quel conflitto, non evitarlo con il No. Perché a furia di dire No a tutto, finiremo per dire No anche a noi stessi.




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