Lampi nel buio

"Hai levato la vita, hai dato la morte.
Quella notte a illuminare il cielo notturno
non erano le focose stelle;
il bagliore che squarcia le tele del buio
erano le bocche delle armi".
 
E’ un passo di una poesia ancora non pubblicata, l’acuto letterario del collaboratore di giustizia che legge Platone in carcere e ama le prospettive del Brunelleschi. Che con i giochi delle parole ha riempito migliaia di pagine di confessioni raccolte dalle pazienti orecchie dei pubblici ministeri Beatrice Ronchi e Marco Mescolini.
 
Antonio Valerio l’ha letta nell’aula bunker del tribunale di Reggio Emilia martedì 8 maggio la sua poesia che chiude un processo, e le lacrime con cui l’ha accompagnata sono passate quasi inosservate. Eppure quell’ultima dichiarazione spontanea di Aemilia contiene novità che vanno ben oltre la dimensione poetica. Nuove accuse prima di tutto, e poi preoccupazione.
 
Tanta, palpabile, legata a quelle che Valerio chiama “minacce ricevute in aula”, sfuggite ai più perchè lanciate a suo dire in linguaggio ‘ndranghetistico. Minacce che Valerio invita il Tribunale a non prendere alla leggera soprattutto dopo che un altro collaboratore di giustizia, il contabile della ‘ndrangheta Paolo Signifredi, condannato a cinque anni nel processo Pesci, è stato aggredito e riempito di botte sotto casa da tre sconosciuti finendo all’ospedale.
 
La notizia ha gelato il sangue a più di un pentito; le possibili falle del sistema di protezione fanno paura tanto che il legale del più importante collaboratore della ‘ndrangheta crotonese, Angelo Salvatore Cortese, chiede alle Direzioni Antimafia garanzie per la sicurezza del proprio assistito e della sua famiglia.
 
E’ in qusto contesto che vanno inserite le parole di Valerio pronunciate martedì in video conferenza: “Signor Presidente, io mi sento minacciato dalle dichiarazioni fatte nelle scorse udienze sia da Antonio Crivaro che da Alfonso Paolini”.
 
Entrambi debbono rispondere dell’associazione di stampo mafioso ma il primo, stando a Valerio, è salito di grado nella ‘ndrangheta assumendo un ruolo con “grande spessore criminale”. Il secondo è indicato dalle indagini e dai collaboratori come uno dei volti presentabili della cosca che apriva le porte nei salotti buoni di Reggio Emilia e dialogava con uomini della Questura a cui faceva e da cui riceveva favori.
 
Spiega Valerio: “Crivaro ha minacciato a parole Salvatore Muto e si è rivolto a me dicendomi nella sue dichiarazioni in aula: ‘impara a parlare’. Il Tribunale non trascuri questo particolare, perché ‘impara a parlare’ è una minaccia vera e propria. E’ un messaggio con significato ‘ndranghetistico, una minaccia come quella che io feci arrivare a Gaetano Blasco: ‘impara a camminare’, tanto che lui scappò in Germania”.
 
Un’altra minaccia simile a parti invertite la rivolse lo stesso Antonio Valerio a Crivaro: ‘quando parli con me sciacquati la bocca’. Ora invece è Alfonso Paolini che dice mentre depone: ‘quando parlate di mio padre sciacquatevi la bocca’ e Valerio non ha dubbi: “E’ una minaccia, e minacciosi sono gli atteggiamenti che tengono in aula quando si mettono di fianco agli avvocati in quelle pose plastiche. Ostentano il loro status criminale, si sdraiano, si stravaccano, e quello è un senso di prepotere: sono delle vere e proprie minacce palesi.”
 
Con la preoccupazione che deriva dall’aggressione a Signifredi vive in questi giorni anche l’altro collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese, uomo di fiducia di Nicolino Grande Aracri fino ai primi anni Duemilia, unico di tutta la famiglia cutrese oltre al boss a possedere la ‘dote del Crimine’, uno tra i gradi più alti nella scala della ‘ndrangheta. Da quando iniziò a collaborare nel 2008 è una spina nel fianco della mafia calabrese per le sue conoscenze e per l’eccezionale memoria che ha messo a disposizione dei pubblici ministeri di mezza Italia. E’ il ricercato numero uno della ‘ndrangheta ma la sentenza in questo caso è già scritta e non si tratta di botte o fratture. E’ una sentenza di morte.
 
Nicolino Sarcone e Alfonso Diletto, due capi della cosca reggiana, lo volevano uccidere già nel 2004 secondo Valerio. Sono stati condannati entrambi nel rito abbreviato di Bologna: il primo a 15 anni, il secondo a 14 anni e due mesi di carcere.
 
“Lo volevano uccidere in un suo cantiere attirandolo con una scusa, ma la verità è che Cortese non era così scemo, così leggero da andare in casa del lupo senza accortezze. Anche Roberto Turrà fu incaricato di ucciderlo, e invece si legò a Cortese e fecero azioni insieme, perché Cortese probabilmente sapeva che stavano progettando qualcosa contro di lui. Poi uscì Nicolino Grande Aracri che voleva dare una dimostrazione, di poterlo ammazzare anche se era in una località protetta, perché in quel momento era solo Cortese il collaboratore che poteva disturbare realmente Grande Aracri. Cercò i suoi parenti e dette l’incarico tra il 2011 e il 2013 allo zio di Cortese, Peppe Procopio detto Chiricò, e poi a suo figlio Salvatore, a cui diede il ruolo di capo a Capo Colonna per invogliarlo. Ma Angelo Salvatore Cortese è ancora vivo, i fatti sono questi.”
 
E’ vivo ma sa cosa rischia assieme ai famigliari; per questo il suo avvocato si è rivolto alle Direzioni Distrettuali Antimafia e alla DNA di Roma, oltre che al Servizio Centrale di Protezione, per chiedere garanzie e tutela.
 
La tensione è palpabile anche perché non è chiaro chi avesse più interesse a intimidire Signifredi e non è chiaro perché lo abbiano solo picchiato e non ucciso.
 
La vittima dell’agguato avvenuto il 18 aprile è un commercialista di 53 anni residente a Parma che dopo gli arresti di Mantova aveva scritto un falso memoriale ispirato da Antonio Rocca detto King Kong, grezzo e violento sedicente capo della cosca d’oltre Po, per depistare le indagini. Smascherato in 24 ore, aveva poi deciso di collaborare seriamente ed ora è un tassello importante non solo per le indagini sulle attività della ‘ndrangheta al nord. E’ a processo per una maxi frode da 130 milioni di euro che nell’arco di dieci anni è passata per competenza da San Marino a Ferrara a Bologna, approdando infine al tribunale di Reggio Emilia. Una ventina gli accusati di aver costruito e sfruttato un sistema di falsa documentazione nella compravendita dell’acciaio che ricalca straordinariamente con società cartiere e triangolazioni in paradisi fiscali le truffe carosello svelate da Aemilia. Una “associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale”, che coinvolge importanti imprese: Ravani Acciai di Ferrara, Predieri Metalli di Reggio Emilia, Efinox srl di Brescia, Profilglass spa di Fano, Arena Acciai srl di Verona, BCM srl di Modena. Personaggio principale dell’associazione secondo l’accusa è Massimo Ciancimino, fratello dell’ex sindaco di Palermo e teste fondamentale al processo Stato mafia che lo ha condannato nella recente sentenza ad otto anni di galera. Attorno alla truffa dell’acciaio Cosa Nostra e ‘Ndrangheta si sono quindi incontrate secondo i PM e assieme hanno alimentato gli appetiti di rispettabili imprenditori del nord. Forse le botte a Signifredi erano un messaggio per tanti altri: zitti o sappiamo dove venirvi a cercare.
 
Valerio nella sula ultima ora di esternazioni spontanee ha lanciato anche nuove accuse. La prima allo stesso Antonio Crivaro che lo minaccia e che gli chiede di raccontare tutta la verità sulla morte di suo cugino Salvatore Amatore. E’ quasi un abile gioco di spie quello che racconta Valerio, perchè a suo dire Crivaro con la domanda vuole ottenere due piccioni con una fava: mettere in dubbio l’attendibilità del collaboratore di giustizia e capire se può allungare le mani sulla città di Parma rimasta orfana dei capi cosca. “Salvatore Amatore muore nel 2001 per overdose e Crivaro mi sbatte davanti a voi e dice: ‘tu sapevi e non hai detto’, come se io fossi responsabile di quella morte. In realtà il suo obbiettivo è un altro, perchè nel mondo criminale si dice che qualcuno aveva dato apposta della droga tagliata male ad Amatore. Circolavano due nomi, quello di un crotonese chiamato Corigliano e quello di un cutrese che vive a Parma, Gino Oliverio, parente lontano di Totò Dragone. Questo Oliverio è a disposizione della ‘ndrangheta, gestisce locali notturni, movimenta soldi. Quindi Crivaro vuole sapere da Valerio se ci sono appigli per sottometterlo, assoggettarlo, tirarlo dalla sua parte visto che il comando a Parma è vacante”.
 
Un’altra accusa dell’ultima udienza riguarda la rispettabile famiglia dei Grande Aracri di Brescello. Ci sono uomini di ‘ndrangheta colpiti da operazioni antimafia che restano sotto i riflettori delle forze dell’ordine, per cui debbono stare attenti. Ad esempio, dice Valerio, “Francesco Grande Aracri, che è uscito di scena ma non è uscito dalla ‘ndrangheta. A casa sua a Brescello c’è stato un incontro importante sulla questione del gasolio rubato e c’erano anche Paolo e Salvatore Grande Aracri, ma siccome Francesco pensava che ci fossero telecamere nascoste a riprenderli ha detto agli altri: fate voi”. Perchè la cautela non è mai troppa.
 
Una terza accusa, riprendendo dichiarazioni in aula di Luigi Muto e Alfonso Paolini, riguarda i legami tra uomini della cosca e l’Istituto Vendite Giudiziarie diretto da Rocco Russo. “Gaetano Blasco, attraverso sua moglie e i cognati della famiglia Dattilo, hanno aggiustato con l’IVG la casa di via fratelli Bandiera mentre lui era in carcere. Anche Paolini pagò della gente per aggiustare la mia problematica con l’Istituto Vendite Giudiziarie relativa alle maisonettes di Prato di Correggio”. Sono quelle che in una tappa del processo Valerio aveva raccontato essere frutto di un “Do ut des” tra comune di Correggio e costruttori privati (a processo in Aemilia) che comprano a basso costo terreni agricoli poi trasformati in edificabili e in cambio realizzano un centro sociale o una palestra gratis per l’ente pubblico. Più naturalmente “Un quibus per il tecnico dell’ufficio urbanistica”, come chiama Valerio la mazzetta della corruzione.
 
Non si finisce mai secondo Antonio Valerio. Negli ultimi minuti della sua dichiarazione spontanea al nome di Rocco Russo affianca anche quello del giudice reggiano esperto di esecuzioni immobiliari Giovanni Fanticini, chiamato in causa a suo dire dall’imputato Luigi Muto: “Di Fanticini è cognato Giovanni Lamanna che negli anni ’97/98 traslocò la falsa fatturazione, l’usura e il gioco d’azzardo lì al bar Pendolino”. Quello che poi è saltato in aria per una bomba nel dicembre del 1998.
 
Ce n’è abbastanza per trascrivere con cura ciò che dice e col beneficio di inventario aspettare che siano eventuali nuove indagini a stabilire la credibilità di Valerio. Martedì 15 maggio intanto il dott. Mescolini inizia la sua requisitoria.
 
(da Lampi nel buio – Cgil Reggio Emilia)
 
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La Cgil di Reggio ha scelto una forma intelligente per seguire il processo Aemilia affidando a uno dei giornalisti più esperti della realtà locale, che è anche autore consolidato di opere di narrativa, lo sviluppo del dibattimento che va svolgendosi in questi mesi a Reggio Emilia. 24Emilia e io personalmente siamo particolarmente grati a Paolo e alla Cgil per averci concesso l’utilizzo dei suoi testi, anche nella consapevolezza che ciò possa contribuire a rendere più capillare la diffusione delle vicende legate alla penetrazione della ‘ndrangheta nella nostra provincia e a far sì che da una maggiore consapevolezza possano scaturire gli anticorpi affinché questi germi di malaffare possano essere definitivamente estirpati dal territorio emiliano. (n.f.)