“La valle dell’Eden”: l’epopea di Latella

La valle dell’Eden – foto di Brunella Giolivo (12)
7.7

È entrata nel vivo la stagione di Ert al Teatro Arena del Sole a Bologna con “La valle dell’Eden”, regia di Antonio Latella. Lo spettacolo è una coraggiosa coproduzione di Emilia-Romagna Teatro, Teatro Metastasio di Prato e Teatro Stabile dell’Umbria.

L’opera ha dimensioni monumentali: è formata da due parti per un totale di quasi 7 ore di spettacolo; è possibile vedere i due atti separatamente o in una maratona.

Per “La valle dell’Eden” Latella parte dal romanzo omonimo di John Steinbeck che ripercorre la storia di tre generazioni della famiglia Trask, che dal Connecticut migra nella valle di Salinas, in una California mitica che tanto ricorda l’Eden delle sacre scritture.

Questa è la trama che si coglie alla lettura più superficiale dello spettacolo: rapporti familiari tormentati a cavallo tra la corsa all’Ovest di fine Ottocento e i movimentati anni di inizio Novecento. L’intreccio, tuttavia, risulta solo un pretesto per porre delle domande al pubblico che, pur profondamente legate alle storie dei personaggi, li superano perché sono in realtà quesiti universali che toccano l’intimità di tutti noi: esiste l’Eden? Esisterebbe l’Eden se non ci fosse l’uomo a dargli un nome? Cos’è un nome e quali sono le sue implicazioni nella vita di chi lo porta e di chi gli sta intorno?

 

Steinbeck per primo e Latella nello spettacolo suggeriscono che l’uomo è figlio del peccato non perché figlio di Adamo ed Eva, ma perché figlio di Caino, la cui figura viene, tramite le parole del personaggio di Lee, umanizzata e scorporata dal racconto della Genesi analizzandone a fondo il significato.

Caino è sì colui che viene condannato da Dio all’eterno vagabondaggio per l’assassinio di suo fratello Abele, ma è anche colui a cui Dio concede una protezione, per evitare che cada vittima della vendetta, rassicurandolo che può superare il peccato, anche se è nelle sue vene. Dio punisce Caino e poi lo perdona, o meglio, gli concede una seconda possibilità; sarà infatti l’unico dei due fratelli ad avere figli.

Noi siamo quei figli e da questo fardello di albero genealogico ci trasciniamo due cose: abbiamo il peccato dentro di noi, ma possiamo scegliere se essere buoni o cattivi. Questo dualismo tra eredità genetica e il libero arbitrio perseguita i personaggi di questa storia.

Entrambe le coppie di fratelli della famiglia Trask – Adam e Charles, Aron e Caleb – riprendono le iniziali di Caino e Abele; in entrambi i casi c’è un padre che predilige un figlio rispetto all’altro. Gli spunti di riflessione sono davvero infiniti e spesso complessi.

La regia è la vera protagonista. La scena è essenziale: solo un tavolo di legno che simboleggia il nucleo familiare sulle cui sedie si alternano vari personaggi, tranne Adam che rimane seduto di spalle per tre quarti dell’opera (come a ricordarci che vediamo sempre solo parte della verità).

A metà della prima parte cala un sipario metallico che, fermandosi a un metro da terra, limita lo spazio scenico visibile al solo proscenio, ma crea un effetto molto bello di visione parziale, per cui possiamo intravedere solo le gambe o alcuni dettagli di chi sta dietro.

Nella seconda parte questo gioco allusivo ritorna con la vera e propria costruzione di una casa dentro cui avviene gran parte delle scene, di cui spesso non vediamo molto perché coperte dalle assi di legno. Le luci sono fisse, il ritmo è effettivamente lento, ma si creano per questo momenti di grande suspense e soprattutto immagini meravigliosamente poetiche.

 

Una nota di merito a Michele di Mauro e Massimiliano Speziani, nei panni rispettivamente di Samuel Hamilton e Lee, che con i loro monologhi contribuiscono a creare un’atmosfera tragicamente fatata. Bellissimo il personaggio di Cathy, che per i protagonisti risulta l’antagonista, ma che non si riesce mai davvero ad additare come cattiva; ha il coraggio di decidere anche egoisticamente della sua vita.

Unica nota critica di questo spettacolo è la fruibilità, specialmente se le due parti sono viste una dopo l’altra: la costruzione della casa nella seconda metà del secondo atto rallenta molto il ritmo (addirittura devono entrare i tecnici per finire il tutto) e la lettura direttamente da copione del finale potrebbe risultare poco fruibile per il pubblico, a maggior ragione dopo tre ore e mezza.

La lentezza, che per tutto il tempo ha creato immagini poetiche, nell’ultima parte rischia di diventare tempo concesso ad azioni di servizio. Uno spettacolo-evento a tutti gli effetti che ci ricorda cosa vuol dire azzardare a teatro.

I nostri voti


Regia
9
Attori
8
Fruibilità
6