Debutterà sabato 29 novembre alle ore 21 al teatro San Prospero di Reggio lo spettacolo “La vacca di ferro – Dove volano i trattori”, tratto dal libro “Il romanzo delle Reggiane” di Alberto Guarnieri e Micol Pallucca.
L’opera teatrale, con la regia e l’adattamento di Fabio Santandrea, è l’esito di un percorso di riscrittura del libro sviluppato con il contributo di Adriano Riatti dell’Archivio Digitale Reggiane, con l’obiettivo di riportare in superficie la memoria operaia di Reggio con un linguaggio teatrale contemporaneo.
Lo spettacolo racconta la città attraverso gli occhi di Dino, giovane operaio delle Officine Reggiane negli anni Trenta: un viaggio teatrale che restituisce la dignità e l’energia di una comunità che ha segnato la storia industriale e sociale del Novecento reggiano.
La narrazione è affidata all’attore Faustino Stigliani, mentre Chiara Incerti – entrambi della compagnia Il Tempo Che Non C’è – interpreterà un monologo dedicato a Domenica Secchi, una delle vittime dell’eccidio delle Reggiane del 28 luglio 1943. Insieme costruiscono un intreccio di leggerezza adolescenziale, incontri inattesi e scelte decisive in un viaggio che mescola ricordi, musica e narrazione, per restituire la forza vitale delle storie che ancora oggi ci appartengono; per ricordare chi – e come – questa città l’ha costruita.








Dentro i capannoni abbandonati delle Reggiane è nata si è
sviluppata una fra le più importanti avventure
industriali del secolo scorso, che è arrivata ad impiegare fino a 13mila lavoratori.
Negli anni trenta era la quarta industria italiana dopo Fiat, Breda e Ansaldo ed ha sempre veicolato una rappresentazione mitica della città e del lavoro essendo stata vera fucina di impresa e, per i tempi, vero punto di ricerca e innovazione.
Dentro le Reggiane, fra le cui pareti ancora imbrattate e devastate risuona il senso dell’impegno dell’uomo, è stata celebrata la dedizione al lavoro di un’intera comunità, consolidando e diffondendo un’eredità di conoscenza e capacità imprenditoriale tali da renderla protagonista a livello nazionale. Un libro ed una rappresentazione da non perdere in cui affiora l’instancabile collaborazione del curatore dell’Archivio Digitale Reggiane Adriano Riatti.
Le nuove generazioni non debbono dimenticare cosa abbia rappresentato questo luogo ove per oltre un secolo si sono svolte le maggiori attività a carattere industriale di tutta la provincia, a partire dalle carrozze ferroviarie al materiale rotabile (il vero inizio, avvenuto con la nazionalizzazione delle ferrovie decisa dal governo Giolitti), dalla costruzione di macchine agricole ai mezzi cingolati, silos, impianti per zuccherifici sparsi in varie parti del mondo, e specialmente, a ridosso della seconda guerra mondiale, numerosi aerei da combattimento , dopo di che, fin verso la fine dell’attività, prima della definitiva chiusura, la realizzazione di gru fra le più imponenti e robuste mai costruite, fra le quali quella adibita allo spostamento e al posizionamento di piattaforme petrolifere tuttora operante.
Al pari di tutte le altre aree dismesse sui resti delle Reggiane, avendo di colpo perduto la loro funzione produttiva e di presidio territoriale, si è abbattuto un rapido decadimento. Qui ha trovato plastica dimostrazione la “teoria delle finestre rotte” , come solitamente avviene proprio all’interno delle aree dismesse, in quelle specie di terra di nessuno descritta, in modo non particolarmente felice ma piuttosto evocativa, dai neo sociologi come “nonluoghi”.
Il fenomeno delle aree dismesse rappresenta un’emergenza contemporanea, pezzi di città in crisi che solitamente investono dimensioni ragguardevoli e di grande impatto emotivo relativamente al senso di rappresentatività della comunità su cui insistono.
Esse hanno la connotazione di una frattura nel tessuto urbano e tendono ad assumere la forma di terra di nessuno, l’inevitabile conseguenza è il loro degrado, manifestazione concreta di una compromissione che se non arginata tende ad invadere le aree circostanti. La causa principale è l’assenza del presidio umano e, assieme, quella della citata teoria delle finestre rotte, una vera teoria epidemica della criminalità.
E’ la nostra quota di archeologia industriale, un biglietto da visita simile a tanti altri presenti sul territorio italiano. Nell’immaginario collettivo le ex Reggiane non hanno tuttavia perso il loro valore di identità locale, in quella fabbrica sono passate intere generazioni e ancora oggi si ascoltano ex dipendenti parlare con orgoglio della loro esperienza nella grande fabbrica.
Il Comune di Reggio Emilia ha comunque avviato una delle più raziocinanti operazioni di recupero sia ambientale che urbanistico secondo il criterio di mantenere le preesistenze in termini di volumetrie e aspetto, preservando la caratterizzazione dei manufatti e recuperando, restituendolo all’uso pubblico, cosa non di poco conto in termini di presidio del territorio, il grande viale storico denominato Ramazzini, inglobato nei primi decenni di vita come pertinenza della fabbrica, a quei tempi il regime fascista favoriva tutte le operazioni anche di esproprio che fossero utili alla produzione, come ad esempio l’appropriazione di strade, la creazione di cave eccetera.
Il Masterplan del 2011 era già molto avanzato in termini di previsioni urbanistiche e, all’interno una delle sette zone peculiari di intervento per lo sviluppo, prima fra tutte vi era l’area nord con le Reggiane.
Questo Masterplan superava di molto quello presentato nel 2007 dal Centro Cooperativo di Progettazione a seguito della convocazione degli Stati Generali poiché elimina completamente la previsione di abbattimenti indiscriminati e soprattutto non prevede alcuna trasformazione in zona residenziale.
La memoria storica delle Reggiane è troppo importante, la città deve riservare a quella che è stata la più grande realtà economica reggiana un tributo in termini di salvaguardia e valorizzazione, come peraltro previsto dalle normative urbanistiche e dei beni Storico architettonici,