La politica, gli intellettuali e i tecnici

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7.3

Perché politici e intellettuali in questi ultimi trent’anni hanno ritenuto di poter fare a meno gli uni degli altri? Su questa frattura – «consumatasi dopo la fine della cosiddetta Prima Repubblica», un nesso «che è stato il tratto caratteristico della politica italiana del Novecento» – si sviluppa la riflessione di Giorgio Caravale in Senza intellettuali.

Un libro stimolante che fotografa correttamente, e senza sconti, la realtà attuale dell’“intellighènzia” nazionale. Non pensate, però, di trovarvi di fronte a un saggio «sui tic e le idiosincrasie, sui vizi e le virtù dell’intellettuale contemporaneo». No, è un’analisi di quello che è accaduto, a sinistra, dopo la fine del Partito comunista italiano che ha portato con sé la crisi (ossia la fine) del modello gramsciano dell’intellettuale organico, il «prodotto di una politica fondata “su un alto grado di attenzione al fatto culturale, su un impegno costante di arricchimento della elaborazione e azione politica”, il frutto di una classe dirigente “costantemente proiettata verso lo sforzo di qualificare culturalmente la [sua] politica”».
Una crisi che portava con sé, potenzialmente, degli effetti benefici che «indusse lo storico romano [Pietro Scoppola] a salutare con sollievo, all’inizio del nuovo millennio, la parziale dissoluzione delle gabbie partitiche che avevano intrappolato la storiografia italiana, specie quella contemporaneistica, nella seconda metà del Novecento». Ma non andò così.

La separazione e il logoramento, anche se appaiono più eclatanti a sinistra, tuttavia già alla fine degli anni Settanta del Novecento «il rapporto fra tecnica e politica aveva cominciato a incrinarsi», come aveva denunciato Bruno Visentini – docente universitario di diritto commerciale, più volte ministro delle Finanze tra il 1974 e il 1987, oltre che presidente dell’Olivetti e vicepresidente dell’Iri – sul “Corriere della Sera”, nel 1974: «Il “politico di professione” non deve cercare nel tecnico “sostegno e avvallo delle proprie scelte bensì rigore delle informazioni, serietà delle indicazioni ed equilibrio di giudizio”.

Per altri versi, il tecnico non deve “sacrificare il rigore e la serietà tecnico delle sue competenze sull’altare del suo personale desiderio … facendo dell’opportunismo la propria stella polare. Visentini avvertiva il pericolo che il politico si lasciasse sottrarre la guida del processo decisionale o, ancora peggio, che “la funzione e l’arte del politico” fossero sostituite dal “semplice assolvimento delle funzioni tecniche” che insomma venisse a mancare quello “sguardo lungo”, quella “capacità di guardare al futuro e di pensare nel lungo periodo al bene e allo sviluppo della collettività” nel quale risiedeva, a suo parere, la principale ragione d’essere della politica. Una lettura preveggente, un campanello d’allarme rimasto allora come oggi in gran parte inascoltato».

La destra, una volta arrivata al Governo, dovette mettere in conto un rapporto diverso con la cultura, che uscisse dalla angustie di quella ereditata dalla fascismo. Domenico Fisichella, docente di scienza politica all’Università Sapienza di Roma, di simpatie monarchiche, «nei mesi immediatamente successivi alla svolta di Fiuggi [avvenuta nel 1995 che sciolse il Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale] invitò la destra a non imitare il modello gramsciano dell’intellettuale organico» e di essere molto più attenti alla cultura.

Le cose, però, avevano già preso un’altra strada. Il risultato, a destra come a sinistra, è stato l’«intellettuale ad personam», come stigmatizza lo storico dell’Università Roma Tre. Due mondi, quello dei politici e quello degli intellettuali, che in questi ultimi decenni hanno preso strade diverse, la cui relazione è degenerata in molti casi in un rapporto strumentale reciproco: figure politiche, ad esempio, con il loro intellettuale di riferimento, e quest’ultimo ben felice di esserlo.
Non possiamo seguire tutta la complessa articolazione del saggio di Caravale, ma possiamo dire che già «tra il primo e il secondo decennio del XXI secolo il percorso cosi lucidamente tracciato da Berlusconi giunse a compimento», ovvero i partiti italiani concepirono la storia come «un fastidioso ingombro del quale fare volentieri a meno». Arrivò la stagione del “presentismo”: «il “regime di storicità” caratteristico dei nostri tempi che misura la distanza «tra l’ambito dell’“esperienza” e l’orizzonte di “attesa”», ossia «il modo in cui ciascuna epoca percepisce l’evoluzione del tempo storico … L’esperienza contemporanea di “un presente perpetuo, impercettibile e quasi immobile che cerca, nonostante tutto, di produrre per se stesso il proprio tempo storico”, alimentò (e legittimò) l’inconfessabile desiderio dei partiti politici di liberarsi dal peso del passato».

Terminiamo con una considerazione di Caravale, sul «vizio dell’intellettuale di sinistra» che parla dalla sua “torre d’avorio” e che intervenendo nel dibattito politico «focalizza la propria attenzione quasi esclusivamente sulle intenzioni, su “quello che si vuol fare”, piuttosto che sul possibile contributo da offrire affinché si creino le condizioni per realizzare almeno una parte di quel che “si vuol fare».
Un libro con una partitura blues sul ruolo degli intellettuali, una condizione tuttavia non data per sempre (siamo storicisti in fondo…) e Caravale lascia uno spiraglio di ottimismo perché «un altro «modo di fare cultura, anche cultura politica è insomma possibile».

È un caldo invito a leggere il libro.

(Giorgio Caravale, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza, 2023, 18 euro, di Glauco Bertani).

(Si ringrazia la Libreria del Teatro, via Crispi 6, Reggio Emilia).

I nostri voti


Stile narrativo
7
Tematica
8
Potenzialità di mercato
7