La paura e la precarietà dell’uomo

Don Giuseppe Dossetti

“Nell’ora della paura io in te confido”, recita il Salmo 56 (v.4). Certamente, l’ora presente giustifica la paura, sia per il coronavirus sia per eventi finora inimmaginabili, come le uccisioni terroristiche in Francia. Tuttavia, l’intensità della paura non dipende dall’oggettivo peso dei fatti. Le generazioni prima di noi hanno vissuto guerre devastanti, bombardamenti che riducevano le nostre città in macerie, l’incombere dell’olocausto atomico; pochi anni fa, abbiamo assistito al genocidio del Ruanda; tuttora, la Siria non è lontana da noi. Da cosa dipende, allora, la nostra paura? Dal sentimento di precarietà, che viviamo in modo tanto più intenso quanto più abbiamo creduto di poter gestire ogni situazione e di allontanare ogni minaccia.

Certo, è un dovere promuovere l’armonia del creato. Il Concilio ci ha detto: “Benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il regno di Dio” (Gaudium et Spes, 39). Ma l’orizzonte spirituale dell’uomo ha comunque un limite, la morte. Se non riusciremo a far pace con questa radicale precarietà dell’uomo, ogni minaccia, piccola o grande, sarà vissuta con angoscia. La rabbia dei violenti di questi giorni, la ricerca del colpevole in ogni situazione, rappresentano una fuga disonesta da una domanda reale.

Ma si può fare la pace con il limite e con la morte? San Francesco lo ha fatto, chiamando la morte “sorella”. Far entrare la morte nella famiglia, vuol dire che le abbiamo dato un senso. Ci aiutano questi giorni, dedicati al ricordo e alla preghiera per i nostri morti.

Anzitutto, dovremmo considerare i nostri morti come degli amici. Non aiuta Halloween, che invece li rappresenta come nemici, orrende espressioni di un mondo oscuro, che contagia col suo putridume. Il libro dell’Apocalisse, invece, ci presenta la bellezza dell’eternità, così prossima, che il profeta ce la può raccontare: “Vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma (simbolo di vittoria) nelle loro mani” (Ap 7,9). Ma l’apostolo Giovanni rende esplicito il fondamento di questa visione: noi siamo realmente figli di Dio, “anche se ciò che saremo non è stato ancora rivelato”. Soltanto “quando egli sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).

Giovanni descrive mirabilmente la condizione del cristiano: già adesso egli è figlio, ma questa realtà non è ancora pienamente manifesta, neanche a noi. Come gli altri uomini, è necessario “pulirci gli occhi”, per vedere ciò che speriamo. C’è una disciplina da esercitare, anzitutto: non cedere alle illusioni, alle facili promesse. Tuttavia, la cosa più importante è fare fin da adesso l’esperienza del mondo futuro. Come è possibile questo? Anzitutto, con la carità. Nella lettera scorsa, vi citavo san Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio” (1Gv 4,7). In secondo luogo, con i sacramenti, in particolare con l’Eucaristia. Per suo tramite, noi acquisiamo una sensibilità spirituale, che ci porta a fare esperienza delle cose di Dio, della comunione con lui, della consolazione della sua presenza. Si tratta di una comunione affettiva, che ci porta a sentire rivolte a noi le parole: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue per te”. Corpo e sangue sono la morte: ecco perchè essa diventa sorella. La morte di Gesù è amore, il corpo e il sangue vengono trasfigurati, entrano nell’eternità dell’amore di Dio, e noi con essi. Così, possiamo ripetere con san Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? … Io sono persuaso che né morte né vita, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.39).