“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”

Quarta Domenica di Pasqua, Anno B – 22 aprile 2018

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

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Io do la mia vita per le mie pecore”. Questa frase costringe l’uomo a pensare a se stesso con una serietà inaudita. Anzitutto il sacrificio di Gesù è necessario, altrimenti “il lupo le rapisce e le disperde”.

Ci è difficile leggere la nostra storia in modo così drammatico, come se non avessimo nessuna capacità di resistenza al male. In realtà è proprio così: vi è un potere di seduzione e di corruzione per opporsi al quale la buona volontà dell’uomo non basta. È l’esperienza di san Paolo, che egli espone soprattutto nella Lettera ai Romani (per esempio: cap. 3, vv. 21-30).

Il vangelo di Giovanni è imbarazzante proprio per la forza con la quale afferma la nostra impotenza a fare il bene e la necessità della morte di Gesù per noi. Nonostante i nostri tentativi di “demitizzare” lo scandalo della croce e di trasformare Gesù in un mite maestro di consigli belli ma un po’ utopistici, resta immutata la forza delle parole eucaristiche: “Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi […]; questo è il calice del mio sangue, versato per la remissione dei peccati”.

Chi accetta questo amore così radicale è portato a una risposta essa pure radicale. La vita cristiana non può essere vista se non come “vocazione”, cioè come una chiamata a seguire Gesù, ad accogliere le sue richieste, a donarci totalmente alla sua volontà.

“L’amore con l’amor si paga”, diceva san Giovanni della Croce. Questa è anche la base del ministero cristiano: il prete o la religiosa non sono dei funzionari e neppure pensano di realizzare un ideale, un nobile progetto.

La vita religiosa non è neanche una forma particolarmente elevata di vita, riservata a pochi eletti: infatti in ogni stato di vita il Signore chiede tutto, perché lui ha dato tutto. Anche il matrimonio non può basarsi se non su un’apertura totale all’altro, che viene accolto come un dono. Ma anche il malato o l’anziano sono chiamati a consegnarsi in modo completo e definitivo nelle mani di un Dio che riconosciamo Padre.

Ciò che decide la nostra “vocazione” non sono la nostra volontà o il nostro progetto: è il Suo progetto, che noi accogliamo nella nostra vita come l’unico modo degno di rispondere al Suo amore. Nello stesso tempo noi sappiamo che proprio questo sì, da noi pronunciato, ci permette di divenire pienamente uomini e donne, poiché è nell’amore e nella consegna di sé che l’essere umano realizza se stesso.

È molto interessante anche la frase di Gesù, che parla di pecore “che non provengono da questo recinto” e che comunque gli sono affidate, nella prospettiva di un unico gregge. Il recinto è certamente quello di Israele e le pecore estranee sono coloro che verranno dalle nazioni pagane.

Qui sta la ragione dell’universalismo cristiano: non si negano le differenze, anzi, sappiamo che il peccato le esalta, le usa per creare conflitti e violenza; sappiamo però anche che il divino pastore sa trovare le strade del cuore di ogni uomo, cominciando dal nostro.

Dobbiamo avere pazienza; il moralista guarda sdegnoso i difetti altrui e non riesce a leggere il dialogo misterioso tra l’uomo e un Tu, negato ma desiderato; non riesce a vedere come proprio nel dolore il buon Samaritano si accosti all’uomo ferito, non vede che proprio l’esperienza del fallimento abbatte la superbia e apre all’umile invocazione.

Il Pastore è buono: mitezza, compassione e pazienza sono le sue caratteristiche. Così devono essere anche i suoi collaboratori, la Chiesa, che non a caso viene inviata a invitare al Regno, alla festa di nozze, al banchetto per il figlio perduto e ritrovato.

È bello che papa Francesco inviti continuamente alla misericordia: non si può parlare di misericordia e non diventare misericordiosi. Chi è senza misericordia è cieco e non può vedere la realtà dell’uomo; solo la misericordia permette la nascita di una comunità. L’orgoglioso, che non ha compassione, rimarrà solo. Una Chiesa senza misericordia rimarrebbe a custodire i suoi edifici vuoti.