Giovanna D’Arco bruciata a Reggio?

Giovanna Arco

di Mauro Del Bue

 

Verdi, quando, in un solo mese, musica il libretto di Temistocle Solera, lo stesso librettista del Nabucco e dei Lombardi alla prima crociata, sceglie non la storia tramandata e mitizzata di Jeanne D’Arc della memorialistica francese, ma l’opera teatrale di Schiller. il preromantico tedesco, con Goethe il principale esponente dello Sturm und drung, che aveva scritto una rielaborazione del mito. La mistica e tragica odissea della ragazza di Orleans conteneva importanti diversivi. Prima di tutto la morte, che non avveniva sul rogo, ma in battaglia, poi la figura del padre Giacomo ossessionato da presunti peccati terreni della ventenne. La quale s’era innamorata di un comandante inglese e non del re francese, come invece avviene nell’opera di Verdi.

Una versione romantica in Schiller diventa, con la cotta, corrisposta, della ragazza per Carlo VII, ancora più sdolcinata e meno credibile. La figura di Giacomo é centrale nel lavoro verdiano e le sue convulsioni per la figlia appaiono in tutta la loro superficialità. Prima le chiede se ha commesso peccato. Poi la condanna al rogo perché lei non risponde interpretando il suo diniego come una sorta di silenzio-assenso. Alla fine lei gli confessa che é pura e lui la riabbraccia. Anche un po’ credulone. L’opera si regge su tre personaggi: Giovanna, Giacomo, il re, in realtà sono cinque, ma Elil e Talbot sono piuttosto marginali. Tre personaggi come nella Traviata di sette anni dopo. Ma di ben diverso impatto musicale. Il figlio del contadino di Busseto, Muzio, che Verdi allevò come un figlio o un fratello minore, ci illustra tutti i particolari della composizione. Egli scrive: “Il signor Maestro compone a tutta possa, e non sorte di casa che verso all’ora di pranzo. (…) Nessuna Giovanna ha mai avuto musica più filosofica e più bella (…)”.

In soli due anni, tra il marzo 1844 e il marzo 1846, lavorando come un forsennato, Verdi sfornò ben cinque opere nuove (“Ernani”, “I due Foscari”, “Giovanna d’Arco”, “Alzira”, “Attila”), e altre sette le scrisse fino allo “Stiffelio” del novembre 1850. Per lui furono gli “anni di galera” come scrisse egli stesso ripensando a quella stagione febbrile di lavoro forzato. E fra le opere di quegli anni, la Giovanna d’Arco, aveva per lui un suo primato: “E’ la migliore delle mie opere, senza eccezione e senza alcun dubbio”, telegrafò infatti all’amico librettista Francesco Maria Piave, dopo la prima alla Scala, del 15 febbraio 1845, appena tre mesi dopo l’ultima recita dei Due Foscari, opera a mio giudizio di ben altro valore musicale e drammatico, al Teatro Argentina di Roma. Poi il tempo passa e i giudizi si sono velocemente ribaltati.

Giovanna d’Arco non contiene certo l’istintiva propulsione innovativa del Nabucco e neppure la dolce, malinconica e rassegnata visione dell’Ernani coi suoi personaggi presentati e scavati anche psicologicamente (fu lì al teatro la Fenice di Venezia che comparvero i biglietti lanciati dal Loggione con la scritta di Viva V.E.R.D.I, cioè Viva Vittorio Emanuele re d’Italia).

Ma se a Venezia, nell’occasione dell’Ernani si era cementata la collaborazione con Piave perché nella Giovanna d’Arco Verdi torna a Solera? Per Massimo Mila di quest’opera si salvano solo il preludio, fino alla cavatina del re, e il terz’atto, per altri critici meno benevoli nemmeno questi. Si è sottolineato come mai prima d’allora Verdi avesse saputo interpretare insieme il genere mistico, quello teatrale e quello militare, sfiorando anche quello amoroso. Questi già emergono nella sinfonia iniziale, poi s’appannano in un insieme di caballette e arie un po’ scontate e banali. Ma nel Nabucco Verdi non aveva già messo in musica diversi aspetti e stili? Non c’è nel Nabucco il mistico, il guerresco e anche il romantico? Non c’è la profezia che in Giovanna D’Arco si manifesta attraverso la voce degli spiriti? Ci concilia con Verdi nel prologo solo il coro d’apertura, che l’autore vuole protagonista anche in quest’opera come lo era stato nel Nabucco, nei Lombardi e per certi aspetti anche nell’Ernani.

La difficoltà di Verdi, a fronte di un’orchestrazione alquanto modesta e del ricorso a un canto non accompagnato che sembra più una rinuncia che una scelta, é di scandire con la musica l’alternarsi delle passioni, la presenza degli aspetti mistici e la psicologia tormentata di Giovanna, la condanna e poi l’assoluzione del padre, l’amore compresso per il re (sia pure per un attimo, confesserà al padre) e quello del re per la fanciulla, sta nel produrre temi musicali con arie dissimili e non troppo scontate. Il tentativo non riesce spesso, tranne nel terz’atto, che è il migliore dell’opera. Ti aspetti sempre una melodia esplosiva e invece di esplosivo ci sono solo i suoni dei timpani. Giovanna D’Arco é andata in scena al Municipale Valli di Reggio Emilia, in una coproduzione col teatro di Modena, venerdì 27 novembre (replica domenica 29 in matinée) davanti a un pubblico piuttosto scarso (paura del Covid o minore interesse per il Verdi meno popolare?), ed é stata salutata da calorosi applausi.

Cominciamo dalla nullità prodotta dalla regia: non un’idea, cantanti che si guardano e un video che diffonde di quando in quando immagini di guerra. E son venuti, regista e scenografo, dall’estero. Valeva la pena? Non c’è qui un punto cui far leva, ad esempio il misticismo, come ha fatto David Livermoore alla Scala e anche al Costanzi di Roma l’anno scorso). Continuiamo col direttore d’orchestra. Un non giudicabile vista la povertà dell’orchestrazione. Diciamo al massimo corretto e diligente. I cantanti: Giovanna, Vittoria Yeo, se la cava bene, tranne nel prologo in cui la sua voce pare impiccarsi negli acuti producendo qualche effetto sgradevole.

E’ la stessa che applaudimmo in Leonora nel Trovatore di qualche anno fa. Mah.. Che si possa passare da Leonora a Giovanna d’Arco é un mistero che oggi si risolve nell’annullamento dei singoli generi vocali. Mieli, d’altronde, passa dal Werther al Trovatore con una noncuranza preoccupante. Se fosse ancora vivo cosa mai direbbe il grande Krauss? Carlo VII é il tenore Amadi Lagha, buona voce e ben impostata, ma scarso nel fraseggio in cui rischia spesso di cadere nel parlato, Giacomo é il baritono David Cecconi, efficace e prudente. Ottimo il coro del Comunale di Modena. Difficile capire le ragioni che hanno spinto i due teatri a produrre quest’opera.

Dopo le esperienze di Milano e Roma il rischio era evidente. Ma hanno voluto correrlo. Queste opere minori di Verdi si possono accettare solo in presenza di grandi interpreti e di un grande regista. L’esperimento di Milano e di Roma è riuscito. Quello di Reggio e Modena penso proprio di no. A bruciare Giovanna d’Arco a volte si può riuscire anche senza il rogo.