Durante l’Ultima Cena, Gesù affida ai discepoli il suo testamento spirituale. Egli sarà presente tra loro nell’Eucaristia, nel segno che massimamente esprime il dono della sua vita: il pane spezzato e il vino versato: “Prendete, mangiate, bevete: fate questo in memoria di me”, dove la memoria non è rimpianto del passato, ma è presenza dell’eternità nell’oggi. In aggiunta però egli vuole che l’oggi dei discepoli sia davvero il dilatarsi del Vangelo al mondo, grazie alla vita dei suoi, divenuta specchio che riflette l’amore fino all’estremo, fino al dono della vita.
In questa cornice, Gesù pronunzia una parola folgorante, che riguarda il rapporto della sua Chiesa con il potere: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,25-27).
Qualche ora più tardi, Pilato lo interrogherà: “Tu sei re?”, e Gesù sarà coerente con quanto ha detto; non chiede le dodici legioni di angeli che lo difendano, ma accetta lo scherno del cartello, che lo proclama re da burla, coronato di spine, esposto al ludibrio dei delusi, di quanti si aspettavano ben altro trionfo.
Quanti benefattori ci sono in giro, anche nel tempo presente! Così si presentano, ma in realtà si innalzano su un trono di lacrime e di sangue. Che cos’è la pace, per costoro? Essa assomiglia all’amicizia dei due macellai, Pilato ed Erode. Erode, dopo aver disprezzato Gesù, lo rimanda al procuratore romano e l’evangelista annota: “In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia” (Lc 23,12).
Non dico che il potere e la ricchezza siano cose cattive in sé, ma l’uomo peccatore trova in esse lo stimolo a fare il male. È necessaria una grande vigilanza e, se mi è permesso, il formarsi una coscienza storica. La storia rivela l’uomo a se stesso. Ma anche la Chiesa può trovarvi motivi di riflessione. Quante volte è capitato che ella si sia messa in competizione per il potere! Magari il fine era buono, come il desiderio di contribuire all’ordine e alla pace; ma basta leggere la storia di Innocenzo III, uno dei papi più grandi, e di san Francesco per convincersi che la riforma della Chiesa e l’efficacia della sua presenza nel mondo devono percorrere altre vie, rispetto a quelle del potere.
La storia insegna anche che una Chiesa povera trasmette il Vangelo con un’efficacia non paragonabile a quella di tempi apparentemente più ricchi di successi e di mezzi. San Paolo si lamentò un giorno col suo Signore, che non gli aveva risparmiato sofferenze e contrasti. La risposta fu: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Così l’apostolo conclude: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12).
Mi rendo conto che questi discorsi sembrano vaneggiamenti. Ma dove sono Pilato ed Erode, quando l’uomo sperimenta il dolore e la morte? Nella Casa Bianca e nel Cremlino il dolore del mondo si trasforma, nel migliore dei casi, in una statistica: non c’è compassione, non c’è pietà, non c’è tenerezza.
Invece la tenerezza di Dio ha, come prezzo, la morte in croce del Figlio dell’Uomo, accanto all’uomo, al ladrone, accanto a ciascuno di noi. Nessuno potrà accusare Dio di non conoscere il dolore dell’uomo, come fanno Giobbe e, in una certa misura, Nietzsche. L’ultima parola che l’uomo sente è: “Come io sono con te, oggi, qui sul Calvario, così tu sarai con me in Paradiso”. Così sia nel nostro giorno ultimo.







Non ci sono commenti
Partecipa anche tu