Editoriale. Brigate rosse, il tabù reggiano

moro

È lo scatto che ricordiamo tutti, noi che c’eravamo, noi che ogni mattina venivamo accompagnati prima o durante scuola dalla notizia dell’ennesimo attentato terroristico delle Brigate rosse e vari accoliti. L’assassinio di Aldo Moro fu il punto più alto della sanguinosa battaglia rivoluzionaria di quei ragazzi senza speranza, resi cinici oltre il limite dell’umanità, per i quali il rispetto della vita contava zero. Oggi, a distanza di 45 anni dall’orrendo delitto Moro, fonti più o meno interessate cercano di intorbidire le acque e di annegare il dibattito sugli anni Settanta in un generico scontro tra classi, geopolitica e opposti estremismi.

Eppure la verità autentica, cruda, concreta nella sua irrimediabilità, sta anzitutto negli undici colpi di mitra sparati al corpo di Moro all’interno del baule di quella divenuta celebre Renault4.

Oggi, 9 maggio, le istituzioni di Modena ricordano pubblicamente Moro e Marco Biagi. Reggio, il cui senso di vergogna per avere allevato le prime Brigate rosse in nome del comunismo, non riesce a dire né a fare nulla, impietrita dinanzi al tabù a cui la storia italiana la inchioda, senza capire che solo una definitiva storicizzazione di quel fenomeno potrà consentire a chi verrà dopo come e perché si arrivò nel Novecento a quelle tragedie e a quelle disgraziate illusioni pseudo-rivoluzionarie.