Bologna viene messa a ferro e fuoco per una partita di basket. Non per un trattato internazionale, non per un voto del Parlamento: per una gara di Eurolega fra la Virtus e il Maccabi Tel Aviv. Una squadra di basket, non un corpo diplomatico. Atleti, non emissari di un governo. Eppure la città si ritrova paralizzata, sbarrata, vietata.
Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: la parte civile della città, quella che vorrebbe semplicemente andare al palazzo dello sport, godersi lo spettacolo, portare i figli a vedere due squadre che si affrontano sul parquet — quella parte viene trattata come un problema. La vera minaccia, invece, si aggira fuori: i professionisti della violenza, gli ultras dell’ideologia, quelli che ogni occasione è buona per mettere in scena l’ennesimo rito di odio politico travestito da militanza.
Il sindaco Lepore, davanti alla prospettiva di dover garantire l’ordine, ha pensato bene di provare ad annullare la partita. Non una soluzione: una resa. Il messaggio, per chi voglia leggerlo, è desolante: basta alzare la voce, minacciare disordini, agitare bandiere propal come pretesto, e l’istituzione si piega. Non per senso di responsabilità, ma per paura. Una mossa pavida e indecorosa, che finisce solo per compiacere gli estremisti. Una sconfitta preventiva mascherata da prudenza.
Diciamolo chiaramente: qui la questione palestinese non c’entra nulla. È un costume, un drappo da indossare per l’ennesima sfilata del fanatismo. Si protesta contro una squadra di basket perché lo sport è facile da colpire, perché gli atleti non rispondono, perché gli appassionati non tirano molotov.
E così Bologna — la città civile, colta, aperta — viene umiliata. Costretta a chinare la testa davanti a chi, della città, non ha alcun rispetto. Ma l’umiliazione più grave è quella silenziosa: quella di chi tace, di chi ritiene più comodo non vedere. Perché ogni violenza tollerata diventa un precedente. E ogni resa dell’istituzione diventa un invito a provarci ancora.







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