Quando Henry Luce fondò Life nel 1936, non creò solo una rivista: inventò un modo di guardare il mondo. Figlio di missionari protestanti in Cina, a 18 anni rientrò negli Stati Uniti per studiare a Yale. Durante quegli anni, immerso nella cultura del servizio morale dell’élite protestante e membro della famosa “Skull and Bones”, Luce assimilò l’idea – poi centrale nel suo giornalismo – che la stampa avesse un compito di guida civile e morale nei confronti dell’opinione pubblica.
Nel febbraio del 1941 pubblicò su Life il famoso articolo “The American Century”, dove invocava l’intervento americano sulla scena della Seconda guerra mondiale in virtù della responsabilità di “illuminare e guidare il mondo” che gli Stati Uniti si attribuiscono storicamente.
Le sue riviste – Time, Fortune e soprattutto Life – furono i veicoli di questa fede: raccontavano un’America forte, ottimista, civilizzatrice, che si proponeva come modello globale. Ma la vera arma segreta non erano le parole: erano le immagini.

In un’epoca in cui la radio era la voce e il cinema il sogno, Life divenne l’occhio del mondo. Ogni settimana milioni di lettori sfogliavano le sue pagine lucide, dove le fotografie non illustravano la realtà: la creavano. La potenza visiva della rivista trasformò il giornalismo in racconto per immagini, dando forma a un nuovo linguaggio universale – immediato, emotivo, apparentemente oggettivo. Nelle fotografie di Life la democrazia americana prendeva corpo: le fabbriche come cattedrali del progresso, le dighe del New Deal come le mura ciclopiche di mitiche fortezze, i volti comuni come eroi del quotidiano, le guerre come drammi morali combattuti per la libertà.
Tra i fotografi che contribuirono a costruire questo immaginario, spicca una figura straordinaria: Margaret Bourke-White. Prima donna fotografa di guerra accreditata dall’esercito americano, prima a salire su una fortezza volante durante un bombardamento, prima a ottenere un permesso per scattare all’interno di un’industria sovietica negli anni Trenta. In un mondo dominato dagli uomini, Bourke-White fece della macchina fotografica la sua arma di libertà.
La sua carriera incarna lo spirito stesso di Life: curiosità, audacia, fiducia nella modernità. Nelle sue prime immagini per Fortune aveva ritratto acciaierie e ponti come sculture monumentali, esaltando la bellezza meccanica dell’industria americana. Ma la guerra e la sofferenza umana la trasformarono. Le sue fotografie della carestia in India, del volto sereno di Gandhi accanto all’arcolaio o di quelli sfigurati dei sopravvissuti nel campo di concentramento di Buchenwald, mostrano la tensione morale di un occhio che non smette di credere nella possibilità di verità. “La macchina fotografica è uno strumento straordinario per insegnare a guardare”, scrisse. E in quel “guardare” c’era tutto: compassione, coraggio, testimonianza.
Attraverso l’obiettivo di Bourke-White e dei suoi colleghi, Life raccontò non solo l’America ma il mondo intero visto da una prospettiva americana. Le sue pagine offrirono per decenni una finestra luminosa sull’American way of life, ma anche un potente strumento di influenza culturale: un modo per far coincidere la modernità con l’America stessa.
Oggi, nell’era delle immagini infinite e dei social, può sembrare lontano quel tempo in cui una fotografia settimanale cambiava il modo di percepire la realtà. Eppure, molte delle nostre immagini mentali – il soldato che issa la bandiera a Iwo Jima, i volti sorridenti del boom, le metropoli scintillanti – nascono lì, tra le pagine di Life. Henry Luce voleva un secolo americano. Le sue riviste, e le fotografie di Bourke-White, riuscirono davvero a costruirlo: un secolo in cui vedere era credere, e credere voleva dire guardare con gli occhi dell’America.
Venerdì 7 novembre alle ore 18 a Palazzo Da Mosto ne parleremo con Monica Poggi, curatrice della mostra “Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960” (ai chiostri di San Pietro fino all’8 febbraio 2026) e Michele Cometa, docente all’Università di Palermo ed esperto di fototesto. L’incontro inaugura il ciclo di conferenze “Il secolo americano”.







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