Smartphone e social, educare o vietare

adolescenti smartphone – P

Domenica 4 maggio, ospite della Festa di primavera dell’Associazione per la pedagogia steineriana, si è tenuto un incontro pubblico con Alberto Pellai. Medico, psicoterapeuta, docente all’Università di Milano, autore di diversi libri di successo sull’adolescenza, Pellai è promotore con Daniele Novara, pedagogista di area montessoriana, di una proposta di legge – giunta ormai oltre le 100.000 firme – sul divieto di utilizzo degli smartphone per minori di 14 anni e di iscrizione ai social per i minori di 16 anni.

L’incontro, seguito da oltre 300 persone, di cui molte non aderenti al percorso educativo steineriano che, come è noto, non prevede l’uso delle tecnologie fino ai 14 anni, è stato particolarmente stimolante, tanto da spingermi a condividere alcune riflessioni.


La proposta si basa su due tipologie di evidenze: una clinica, un’evidenza che attraversa le storie di tanti bambini e ragazzi intrappolati nelle dinamiche perverse innescate dall’uso improprio dei dispositivi e dall’ambiente tossico che relazioni virtuali possono generare, con riflessi inevitabili sul mondo reale; l’altra pedagogica, un’evidenza più sottile che, partendo da ciò che dovrebbe prevedere lo sviluppo organico e funzionale di ogni bambino, pone l’accento sulle distorsioni prodotte dall’anticipo dell’uso di determinati strumenti.

Secondo un’indagine promossa dal Ministero delle imprese e del made in Italy nel febbraio 2024, il 94% dei minori tra gli 8 e i 16 anni utilizza uno smartphone, con il 68% che ne possiede uno personale. Inoltre, sette ragazzi su dieci tra gli 8 e i 10 anni usano regolarmente i social media e le piattaforme di streaming. ​

Un rapporto di Save the Children del novembre 2023 evidenzia che il 78,3% dei bambini tra gli 11 e i 13 anni utilizza internet quotidianamente, principalmente attraverso lo smartphone. Dopo la pandemia, si è registrato un aumento significativo nell’uso quotidiano del cellulare tra i bambini di 6-10 anni, passando dal 18,4% nel biennio 2018-2019 al 30,2% nel 2021-2022.

Queste alcune tra le principali problematiche rilevate da recenti indagini: rendimento scolastico ridotto, disturbi del sonno, problemi di autostima, ansia e depressione legate alla presunta inadeguatezza della propria immagine corporea, isolamento sociale, dipendenza all’uso, esposizione a contenuti non appropriati all’età.

Il recente successo della miniserie “Adolescence” ha dato nuovo impulso alla discussione, a causa del ruolo – certamente non l’unico ma neppure secondario – della dimensione virtuale nelle vicende drammatiche vissute dai giovani protagonisti.

Pur riconoscendo da parte di tutti gli interessati i guasti prodotti da un utilizzo inappropriato dei dispositivi, la questione rimane divisiva. I detrattori di tale proposta insistono, piuttosto, sull’educazione: non ha senso opporsi al progresso, i cosiddetti “nativi digitali” sono nati dentro un mondo che utilizza strumenti che fanno ormai parte del paesaggio e delle abitudini. Sarebbe inutile e fuorviante vietare tali dispositivi, anche perché la tecnologia non è né buona né cattiva ma dipende da come la si usa. Diversi approcci pedagogici di grande successo, d’altra parte, incentivano il confronto con tali strumenti fin dalla più tenera età, ipotizzando la capacità dei bambini di poterne gestire l’impatto proprio grazie a una familiarità precoce, comunque sotto lo sguardo attendo dell’educatore.

I favorevoli al divieto portano l’esempio dell’automobile: nonostante l’automobile sia oggi uno strumento tecnicamente molto semplice da utilizzare (cambio automatico, guida assistita se non del tutto autonoma, sensori ovunque), tuttavia rimane vietato il suo uso fino alla maggiore età. Questo a causa delle implicazioni potenzialmente dannose verso sé e i terzi che il suo uso inappropriato può generare. Anche se non risulta immediatamente evidente, lo smartphone e il sistema dei social riproducono situazioni di pericolo e responsabilità analoghe, dove è necessaria una maturità specifica per poterli utilizzare, fissata rispettivamente a 14 e 16 anni.

Chi scrive è personalmente convinto del divieto, lo ha applicato ai propri figli senza nessuna particolare ripercussione – se non le ovvie proteste “perché tutti ce l’hanno e io no” – e oggi, ultraventenni e uno con prole, non risulta siano stati particolarmente segnati dal divieto. A 14 anni hanno avuto il loro smartphone, senza “parental control” di sorta, con la possibilità di un controllo diretto da parte dei genitori in qualsiasi momento.

Al netto però delle storie personali, positive o negative, che in fin dei conti non contano nulla per la definizione di una “regola”, la cosa interessante di questo dibattito tra “educazionisti” e “proibizionisti” è che entrambi rinunciano ad assumere un punto di vista antropologico “forte”.

Gli educazionisti – ideologicamente antiproibizionisti e progressisti a oltranza nella possibilità di estendere l’innovazione alla sfera del diritto per il solo fatto che l’innovazione esiste e prospera – ritengono che ogni cosa si possa gestire attraverso l’educazione, meglio se precoce. Il coding? Fondamentale per trovare lavoro (si diceva qualche anno fa prima di vedere all’opera ChatGPT…), e dunque perché non insegnarlo fin dalle elementari? I tablet? Facilissimi da usare con la loro interfaccia touch, e dunque perché non introdurli anche alla scuola dell’infanzia? Gli smartphone? Fenomenali nella loro possibilità di estendere l’accesso a banche dati e materiali multimediali “utilissimi” per l’istruzione, e dunque perché non accoglierli anche nelle classi? Per l’educazionista di ogni cosa si può imparare l’uso, a qualsiasi età, basta introdurla con modalità corrette e spiegare bene (come se la dimensione “morale” dell’uso fosse comprensibile a qualunque età) cosa fare e cosa non fare, proprio perché la tecnica è neutra, né buona né cattiva, dipende dall’uso che se ne fa.

Il proibizionista – solitamente – utilizza le evidenze scientifiche. Poiché la scienza descrive ciò che c’è, non ciò che non c’è ancora, interviene sempre dopo che i buoi sono scappati. In questo caso le neuroscienze hanno inequivocabilmente dimostrato che ci sono aree del cervello, fondamentali per l’apprendimento cognitivo, che non si sviluppano pienamente se il minore porta nel digitale attività ed esperienze che dovrebbe invece vivere nel mondo reale. Simili comportamenti in età prescolare portano ad alterazioni della materia bianca in quelle aree cerebrali fondamentali per sostenere l’apprendimento della letto-scrittura. I fatti lo dimostrano: nelle scuole dove lo smartphone non è ammesso, gli studenti socializzano e apprendono meglio. Prima dei 14-15 anni, il cervello emotivo dei minori è molto vulnerabile all’ingaggio dopaminergico dei social media e dei videogiochi. Sono dati, nudi e crudi, quindi perché non agire di conseguenza?

Cosa stride in entrambe le posizioni? La prima – fondamentalmente ideologica – rinuncia ad avere un’idea dell’infanzia che guidi le azioni degli adulti-educatori; la seconda – scientista – rinuncia alla stessa idea perché sarebbe ex ante rispetto alla raccolta dei dati e a una decisione (vietare o non vietare) che può avvenire sempre e solo ex post l’accertamento dell’evidenza.

Qual è, dunque, l’idea forte dell’infanzia sostenuta dalla visione Steiner-Waldorf, di fatto minoranza rispetto alla prima e alla seconda posizione e dunque destinata inevitabilmente a un’inattualità cronica? L’idea è che esistano tappe di sviluppo precise nella crescita di un essere umano, tappe che richiedono lo sviluppo di determinati sensi in ognuna di esse. A ogni senso corrisponde lo sviluppo di una capacità futura. Se impedisco il corretto stimolo di un determinato senso nel momento opportuno, impedirò alla corrispondente capacità di manifestarsi pienamente nel corso della vita.

Un esempio per tutti: il bambino piccolo, fino ai 6 anni, ha la necessità di sviluppare il senso del tatto in maniera qualitativamente diversificata. Ogni materiale produce esperienze ricche di qualità differenti legate soprattutto alla percezione del calore. Se introduco l’utilizzo di un display touch nel momento in cui si richiede quel tipo di esperienza, come potrà mai manifestarsi pienamente la capacità corrispondente? La capacità corrispondente al senso del tatto è quella di riconoscere l’Io altrui. Il genio della lingua ha inventato “avere tatto” come modo di intendere la capacità di “sentire l’altro”, di entrare in empatia con l’altro. Un senso del tatto impoverito non potrà che generare un’atrofia della capacità di empatia in età adulta.

E così via per gli altri dieci sensi tra loro correlati nella visione antropologica della pedagogia Steiner-Waldorf: i sensi inferiori o sensi della corporeità (legati alla volontà): vita, movimento, equilibrio, tatto; i sensi mediali o del mondo esterno (legati al sentimento): calore, gusto, olfatto, vista; sensi superiori o della conoscenza (legati al pensare): udito, linguaggio, pensiero, Io.
Dunque, la capacità morale di giudicare corretta o meno un’azione (per esempio la diffusione di certi messaggi o certe immagini nella rete dei pari o pubblicamente) non può essere educata a qualsiasi età. Un conto è istruire un bambino sulla procedura tecnica per ottenere certi risultati seguendo un processo (semplicissimo con le interfacce touch odierne), un conto è pretendere che il bambino sia in grado di farsi un’immagine delle conseguenze ultime di un gesto, pensiero per altro difficilissimo anche per gli adulti. Non ci sono scorciatoie nello sviluppo dei sensi, perché intimamente legati allo sviluppo del corpo, come le recenti analisi delle neuroscienze orientate da una epistemologia fenomenologica ampiamente dimostrano. In estrema sintesi: un bambino di 10 anni non ha ancora vissuto abbastanza per poter usare consapevolmente uno smartphone.

La seconda considerazione, che completa la riflessione sull’atteggiamento corretto da tenere nei confronti dei bambini, riguarda la presunta neutralità della tecnica. La tecnica non è neutra, non è eticamente dipendente dall’uso che se ne fa. La tecnica non prevede in sé una dimensione etica. Fa sorridere quell’ingegnere che a un recente incontro ricordava come negli ultimi 15 anni si siano preoccupati in maniera “a-etica” di sviluppare codice sulla cosiddetta “intelligenza artificiale”, la stessa ricerca che alimenta la diagnostica per immagini nella cura del tumore e la guida autonoma per i droni che bombardano in guerra. Poiché la tecnica è quantitativamente rilevante nel paesaggio odierno, concorre a disegnare il mondo in cui siamo “immersi”, i pensieri che facciamo e le parole con cui li esprimiamo, senza che si possa “uscire” dal mondo e giudicarlo. Martin Heidegger non rifiutava la tecnica in sé, ma ammoniva l’uomo sulla sua incapacità di pensare “al di fuori” dei sistemi tecnici, di avere un pensiero alternativo a quello che ha prodotto la tecnica e che tutto riduce a quantità, peso e dimensione. Delegare la tecnica, i dispositivi tecnologici in questo caso, allo sviluppo di facoltà prettamente umane, significa togliere ulteriormente forza, in età adulta, alla possibilità di un pensiero nuovo, a quel pensiero capace di “uscire dal mondo” e di prendere decisioni non già stabilite da ciò che oggi la tecnica ha generato come decisore ultimo: economia e finanza.

Economia e finanza – con la leva del marketing al loro servizio – sempre di più attaccano l’uomo nel suo momento di maggior vulnerabilità, l’infanzia, da almeno 15 anni terreno di conquista di grandi interessi capitalistici, indifferenti alla dimensione morale. “Troppe cose, troppo presto, troppo velocemente”, come dice Sabino Pavone, educatore e formatore di maestri Waldorf da oltre trent’anni, è il mantra dell’azione distruttiva delle capacità sociali a cui sono sottoposte le generazioni odierne. Egoismo, incapacità di “sentire l’altro”, incapacità di “vedere sé nell’altro”, sono il frutto di questi duecento anni di eccezionale progresso tecnologico, senza una altrettanto potente “progressione morale”. Favorire la capacità di generare pensieri nuovi, impedire la deriva tecnocratica e illiberale non solo sulla base dell’ovvia evidenza scientifica dei danni, ma seguendo un’idea luminosa e di grande dignità dell’essere umano è compito di tutti quegli adulti che sentono su di sé la responsabilità dell’educazione. È una precisa richiesta che ci viene incontro dal futuro.