Reggio, vescovo: serve nuova classe dirigente

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Domenica 24 novembre la Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla e la città di Reggio Emilia hanno festeggiato il Patrono san Prospero. Il vescovo Massimo Camisasca ha presiedutola santa Messa solenne nella Basilica cittadina dedicata al Patrono.

Com’è tradizione, in tale solennità, il pastore ha tenuto il suo discorso alla città, dedicato quest’anno al tema “I cattolici italiani e la politica”.
Qui sotto è riportato il testo integrale del discorso, distribuito anche in forma di libretto (mentre al momento dell’omelia della Messa il vescovo Massimo Camisasca ne ha pronunciato una versione ridotta).

Cari fratelli, care sorelle,

la nostra Nazione e il nostro Stato necessitano di una nuova classe dirigente che sappia portare dentro di sé la storia e la tradizione del nostro Paese, per poterlo accompagnare e guidare verso nuovi traguardi, in un contesto culturale profondamente mutato rispetto al passato recente e in continua accelerazione. Questa nuova classe dirigente dovrà essere formata da persone in grado di uscire da un disegno legato al proprio interesse particolare, capaci di entrare in una visione più ampia della costruzione del futuro.

Nessuno può dire quando e come la nostra Nazione riuscirà ad esprimere questa nuova leadership. Sappiamo soltanto che occorre lavorare alla sua nascita. La comunità cristiana non può esimersi dalla collaborazione a questo scopo, con l’apporto originale della propria fede, speranza e carità.

D’altra parte non è mancato, nella breve storia dello Stato Italiano, il contributo decisivo di pensiero e di azione da parte di alcuni eminenti cristiani. Anzi: collaborando con politici provenienti dalle culture liberali e socialiste, essi hanno caratterizzato le pagine più luminose della storia del nostro Paese. Penso in particolar modo a don Luigi Sturzo (1871-1959) e al suo famoso “Appello ai Liberi e Forti”[1], di cui proprio all’inizio di quest’anno abbiamo celebrato il centenario.

Con questo documento del 18 gennaio 1919 la Commissione provvisoria del Partito Popolare Italiano diede vita a un nuovo soggetto politico, con l’intento di creare un punto di riferimento per i cattolici italiani e per tutti coloro che condividevano gli ideali democratici. Non dobbiamo dimenticare che lo Stato italiano, così come lo conosciamo oggi, era appena nato: l’Unità d’Italia era stata proclamata poco meno di sessant’anni prima. Inoltre solamente da pochi mesi si era conclusa la Grande Guerra, con l’annessione di terre fino a quel momento soggette alla dominazione austriaca, ma che il Regno d’Italia rivendicava come proprie a causa della presenza maggioritaria di popolazione italiana. Il contesto sociale e politico del tempo era segnato dall’incertezza. Anche sull’onda delle trasformazioni avviate dal primo conflitto mondiale, l’Italia – così come molte altre nazioni europee in quell’epoca – conosceva una progressiva democratizzazione della vita politica e un allargamento della partecipazione a fasce sempre più ampie della popolazione[2]. In questo cammino si inseriva con forza l’appello di Sturzo, in un Paese segnato dalle rivolte socialiste e dalla preoccupazione delle forze conservatrici. Non senza ragione, perciò, tale appello è stato ricordato anche dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della CEI, in più occasioni[3]. Nello stesso spirito durante l’ultimo anno si sono moltiplicati i convegni e gli studi per raccogliere l’invito dei vescovi ad uscire dall’incertezza che contraddistingue anche il nostro tempo, indicando nel laicato ancora una volta – come accadde nel 1919 – il soggetto chiamato a farsi carico delle iniziative di ripresa della presenza dei cattolici in politica.

Come sappiamo, l’esperienza inaugurata da Sturzo fu di breve durata. Essa fu contrassegnata, benché egli fosse un sacerdote, dalla volontà di non coinvolgere direttamente la Chiesa nell’agone politico. Era, la sua, una coscienza sana di laicità, che oggi i vescovi vorrebbero riproporre.

Insieme a Sturzo desidero ricordare qui, in apertura del mio Discorso alla Città e alla Diocesi, la mirabile figura di Alcide De Gasperi (1881-1954), uomo politico cattolico e grande statista che ha guidato, con la collaborazione di altri, la Ricostruzione dell’Italia dopo la terribile prova e la distruzione della Seconda Guerra Mondiale. Conclusa l’esperienza della dittatura egli ricondusse il Paese nel solco della democrazia e dell’Alleanza con i Paesi dell’Occidente. Non si trattava soltanto di ricostruire, ma anche di riconnettere la storia d’Italia al suo passato e alle sue tradizioni, favorendo la scelta di campo delle democrazie occidentali in un’Europa fortemente segnata dalla contrapposizione con il totalitarismo comunista. De Gasperi era mosso da una coscienza e da ideali molto simili a quelli di Sturzo. Ma nel secondo dopoguerra il contesto politico europeo era profondamente mutato. Si trattava allora di difendere l’Italia e di sostenerla all’interno della cultura occidentale (oltre che dello scacchiere geopolitico). Per tutte queste ragioni la Chiesa si schierò per decenni con il partito politico che De Gasperi stesso aveva contribuito a fondare, la Democrazia Cristiana, e in molte occasioni lo sostenne apertamente.

Nella memoria viva di questi due grandi uomini di fede, modelli autentici d’ispirazione, desidero iniziare questo mio Discorso alla Città nella Solennità di San Prospero, dedicato al rapporto tra il messaggio del Vangelo, i credenti e la politica. Alla luce del nostro contesto culturale e storico-sociale, non facile da comprendere, in continua e rapida trasformazione, e soprattutto profondamente mutato rispetto alle epoche in cui vissero sia Sturzo che De Gasperi, desidero tratteggiare alcune riflessioni, a mio parere irrinunciabili e urgenti, in merito all’azione dei credenti nel mondo.

Insegnamenti utili per il presente non possono che nascere dalla considerazione del passato e dalla contemplazione di ciò che resta sempre vero: per questa ragione in questo mio Discorso, dedicherò ampio spazio alla considerazione del ministero e del messaggio di Gesù, alla storia della Chiesa (e in particolar modo della sua Dottrina Sociale), all’opera che altri prima di noi, a partire dall’Unità d’Italia, hanno compiuto; e al modo in cui hanno già affrontato le stesse questioni che sono oggetto di questa mia riflessione.

Oggi, come nel passato e come sempre, la nostra Chiesa Diocesana – inserita nel contesto più ampio della Chiesa Italiana – non può restare indifferente o ai margini della vita sociale del Paese. I credenti sono sempre chiamati, spinti anche dalla loro fede, a formarsi un giudizio su quanto accade nella vita pubblica e, nella misura delle proprie possibilità e dei propri talenti, a inserirsi attivamente in essa, contribuendo alla sua conduzione, perché, come ebbe a dire con una felice espressione papa Pio XI, “la politica è la forma più alta di carità”[4].

La comunità cristiana e l’impegno politico: cenni storici

La ragione principale per cui all’esperienza cristiana e alla vita di fede non è estraneo l’interesse per l’ambito sociale e civile (e per tutto ciò che vi risulta connesso) risiede nel mistero stesso dell’Incarnazione (cf. Gv 1,14). Dio ha assunto una natura umana, condividendo ogni aspetto della nostra esistenza, in uno spazio e in un tempo ben precisi. La stessa nascita di Gesù, l’ingresso nel mondo del Dio fatto uomo, è collocato dal Vangelo di Luca in una precisa relazione con il potere politico del tempo e, in particolare, con la decisione di Augusto di censire gli abitanti dell’Impero Romano (cf. Lc 2,1-2).

Gesù, durante il suo ministero pubblico, è intervenuto in prima persona su questioni di carattere politico: ad esempio quando i Farisei e i sostenitori di Erode lo misero alla prova chiedendogli se fosse lecito pagare il tributo a Cesare (cf. Mt 22,17-21). In quell’episodio Gesù mostra di riconoscere la legittimità del potere politico (che nella concezione antica aveva anche un valore sacrale), ma allo stesso tempo ricorda che l’uomo deve dare a Dio il proprio cuore e la propria vita, in quanto creato a Sua immagine e somiglianza (cf. Mc 12,29-30). L’episodio evangelico del tributo mette in luce l’esigenza della laicità. Il messaggio di Gesù non separa in modo semplicistico e assoluto l’ambito politico dalla fede, relegando quest’ultima a una dimensione privata e del tutto ininfluente rispetto a quanto accade nel mondo, al potere e alle leggi che lo governano. Al contrario: Gesù chiede di riconoscere i limiti propri della sfera politica: essa, relativa al mondo degli uomini e alle relazioni tra loro, non può mai, per nessuna ragione, sostituirsi a Dio.

Leggendo attentamente e senza preconcetti ideologici le pagine del Vangelo nella loro totalità e unità, possiamo notare inoltre una relativa indifferenza di Gesù rispetto alle diverse forme particolari del potere politico. Egli, capace di conoscere tutti gli uomini e di scrutare i cuori (cf. Gv 2,25), chiama Erode la volpe (cf. Lc 13,32) e, di fronte a Pilato, riafferma la chiara distinzione del potere che viene dall’uomo (talvolta perverso) rispetto al potere che viene da Dio (cf. Gv 19,11). Allo stesso tempo non aderisce alle trame degli zeloti, non riduce cioè la sua missione alla rivolta contro i romani, alla liberazione politica del suo popolo, come avrebbero auspicato molti dei suoi correligionari, in un periodo di grandi rivolte e instabilità sociale, quale fu il I secolo d.C. nella storia della Palestina (cf. At 1,6-8).

Questa posizione di Gesù costituisce la linea maestra dell’impegno della comunità cristiana in politica. Essa sa che nessuna forma di governo della cosa pubblica è perfetta. Ma sa anche che alcune di queste forme possono essere più rispondenti al tempo presente. Inoltre la comunità cristiana non si autoesclude dalla storia: sa che il Regno di Dio comincia già in questo mondo (cf. Lc 17,21: Il regno di Dio è in mezzo a voi!), ma si compirà definitivamente oltre il tempo. Nessun progresso umano, perciò, può essere identificato in modo assoluto con la venuta definitiva del Regno di Dio.

In altri passi del Nuovo Testamento il rapporto del cristiano con il potere politico viene ulteriormente precisato (cf. 1Tim 2,1-6; Tt 3,1-2; 1Pt 2,13-17). Rivolgendosi ai cristiani di Roma, san Paolo scrive: Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto. (Rm 13,1-7).

La comunità cristiana è perciò invitata ad obbedire alle autorità legittimamente costituite, ma sempre e soltanto nella misura in cui esse con le loro leggi e le loro iniziative non contraddicano la legge di Dio o non costringano l’uomo ad andare contro il Creatore. Come affermò san Pietro davanti al Sinedrio: bisogna obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (At 5,29; cf. Ap 13,1-8). Questa definizione del rapporto tra la coscienza personale del credente e il potere politico è espressamente riaffermata anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica[5].

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I cristiani sono pertanto nel mondo, ma sentono di non appartenere al mondo (cf. Gv 17,11-16); contribuiscono alla costruzione del bene comune secondo tutte le loro possibilità, ma allo stesso tempo fondano il loro agire su un criterio “superiore” e rivelato, che non si identifica con le circostanze del momento né con i sistemi costruiti dall’uomo; guardano favorevolmente a tutto ciò che ritengono essere buono e giusto secondo ragione, ma soprattutto amano il Dio di Gesù Cristo e cercano, attraverso ogni strada, di farlo conoscere. Questa modalità di presenza nella concretezza delle vicende umane si realizza anche all’interno della comunità politica, ed è costante nella storia.

Nella Lettera a Diogneto, testo di autore anonimo risalente alla seconda metà del II secolo, leggiamo: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. […] Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere”[6]. Prosegue poco oltre questo meraviglioso antichissimo testo: “A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo, che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani, li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. […] Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare”[7].

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L’anno 313 rappresentò un momento di svolta nella storia del cristianesimo e nei rapporti fra Chiesa e autorità politica. Fu l’anno dell’Editto di Milano voluto dall’imperatore Costantino (e dall’imperatore romano d’Oriente, Licinio), che sancì la libertà di culto per tutti i cittadini dell’impero, inclusi i cristiani (fino ad allora vittime di persecuzioni). Il potere politico interveniva così “a favore” della fede. Quale giudizio dare su questo avvenimento, a distanza di diciotto secoli? La vita della Chiesa fu condizionata dalle scelte dell’autorità civile? Sappiamo che a seguito della decisione di Costantino la Chiesa si consolidò fortemente, e soprattutto che poté intensificare la propria spinta missionaria. Jean Danièlou, importante teologo gesuita del secolo scorso, interpreta così questo passaggio di portata storica: “[L’]estensione del cristianesimo a un immenso popolo, che rientra nella sua essenza, è stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all’interno di una società i cui quadri sociali e le cui strutture culturali gli erano ostili. L’appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso l’Evangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle élite, all’uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo, gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo”[8].

Certamente l’Editto di Milano segnò la fine delle ostilità tra Chiesa e potere statuale e pose indirettamente le basi anche per l’inizio del cosiddetto “potere temporale” della Chiesa e dello Stato pontificio, che nel corso dei secoli avrebbe avuto vicende alterne, fino alla breccia di Porta Pia del 1870 e alla nascita dello Stato “Città del Vaticano”. L’esistenza dello Stato Pontificio ha consentito ai papi di intervenire in molti modi sulla storia d’Europa, sia dal punto di vista politico che dal punto di vista culturale e artistico. Essa ha portato agli splendori del Rinascimento, ma allo stesso tempo ha anche appesantito la vita della Chiesa. La fine di questa esperienza, nel XIX secolo, e la riduzione della sovranità temporale papale al solo territorio della Città del Vaticano, è stata sicuramente provvidenziale. Come disse il cardinal Giovanni Battista Montini (il futuro san Paolo VI) nel 1962, il giorno precedente l’apertura del Concilio Vaticano II durante una conferenza in Campidoglio: “Proprio dopo la fine del potere temporale il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimone del Vangelo”[9]. Al papato restò dunque l’esercizio del potere temporale solamente su “un piccolo pezzo di terra”, quale era il Vaticano: questo fatto non è di secondaria importanza o collaterale, ma rappresenta la garanzia per ogni pontefice di poter esercitare in pienezza le proprie funzioni spirituali[10].

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Torniamo al IV secolo e all’epoca post-costantiniana. Negli scritti dei Padri della Chiesa di quel periodo troviamo molti esempi di particolare sollecitudine per le sorti della comunità politica, di cui essi, in quanto vescovi, erano guide spirituali. San Basilio di Cesarea (329-379), ad esempio, non esitò a far costruire edifici per l’ospitalità dei poveri, correndo il rischio di essere accusato di ingerenza nell’amministrazione pubblica. Nelle sue lettere, inoltre, egli incalza spesso l’autorità politica, spronandola ad intervenire a favore della giustizia[11]. In quanto cristiano e pastore, Basilio sapeva in coscienza di non potersi esimere anche da una qualche responsabilità di ordine sociale. Essa significava per lui il tentativo di edificare una città più giusta e accogliente nella quale tutti potessero abitare. Questo sforzo nasceva in lui dalla fede e si esprimeva come carità.

La responsabilità spirituale e sociale che i pastori sentivano di avere nell’epoca patristica giungeva fino al punto di emettere dei giudizi espliciti su alcune espressioni del potere da parte degli uomini politici e sulle decisioni di questi ultimi. Nell'”Orazione 17″, san Gregorio di Nazianzo (329-390) rimprovera il governatore della provincia, presente tra i suoi uditori, il quale era noto per esigere tributi troppo alti[12].

Gli esempi di Basilio e Gregorio ci fanno comprendere come il governo umano sia sempre perfettibile e debba avere come proprio ideale esclusivo quello del bene comune, mai autoreferenziale. La Chiesa in questo senso può portare sempre un contributo, richiamando a ciò che è giusto coloro che esercitano il potere politico. Essa inoltre, concependosi come “madre”, sente di avere una responsabilità verso tutti. Per esempio, san Giovanni Crisostomo (344/354-407) nelle sue omelie ci informa delle condizioni difficili nelle quali si trovava il popolo di Antiochia. Egli non distingue mai tra pagani e cristiani: ritiene che tutti gli uomini e le donne della città siano bisognosi e degni di aiuto da parte della Chiesa[13]. La comunità cristiana non vuole costruire la “propria” città, ma mette in comune la propria esperienza di umanesimo per il bene di tutti. Certamente i pastori nei loro pronunciamenti possono esprimere giudizi in parte diversi, ma tutti sono accomunati dalla ricerca del bene della società intera. Infatti “tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo. Essa ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione, ma rivela tutte le proprie energie a servizio della promozione dell’uomo e della fraternità universale”[14]. L’unità della fede, continuamente domandata e ricercata, può portare ad espressioni politiche anche differenti, dipendenti dalle diverse situazioni sociali e da diverse sottolineature degli insegnamenti del dettato evangelico.

L’impegno nella polis è per il cristiano uno dei modi per realizzare la seconda parte del comandamento dell’amore: amerai il prossimo tuo come te stesso (cf. Mt 22,39). Ciò è possibile solamente considerando anche la prima parte: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mt 22,37). D’altra parte i due comandamenti sono tra loro simili (cf. Mt 22,39), come afferma lo stesso Gesù.

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Sant’Ambrogio (339/340-397) era stato un funzionario dell’Impero romano. Dopo la sua conversione fece tesoro di quanto aveva vissuto precedentemente. Egli introdusse così nella propria esperienza di pastore la forte consapevolezza della responsabilità civile della comunità cristiana, e in particolare dei vescovi. Ambrogio rispettò e anche ammirò gli imperatori, ma non ebbe timore nel richiamarli alla giustizia divina, come nel caso di Teodosio a seguito della strage di Tessalonica dell’anno 390.

Secondo l’insegnamento di Ambrogio, i governanti devono avere essenzialmente due caratteristiche: il senso della giustizia e, soprattutto, l’amore per la libertà: “I buoni amano la libertà, i reprobi amano la servitù”[15]. La libertà è quindi un diritto prezioso di tutti, che i governanti giusti sono chiamati a garantire e a conservare. La libertà, che è capacità di adesione al bene (e non si esaurisce nel libero arbitrio, inteso come mera facoltà di scelta tra il bene e il male), implica sempre la responsabilità del singolo. Assicurare la libertà affinché ciascun cittadino possa proporre la propria visione del bene comune, nel rispetto dell’altro e obbedendo alle leggi che garantiscono la sicurezza della collettività, è uno dei fondamenti più importanti della laicità dello Stato.

Quando ormai il cristianesimo era divenuto religione libera nell’Impero Romano, sant’Agostino (354-430) scrisse nelle Confessioni che la legge umana non può essere contraria alla legge divina. Sebbene si debba obbedienza al potere legittimo, esso è sempre esercitato in un luogo e in un tempo limitati; Dio, invece, è Signore della creazione. Perciò solamente a lui si deve l’obbedienza totale, un’obbedienza più radicale che non agli altri poteri[16].

Nella Città di Dio, e anche in alcune lettere, Agostino afferma che la fede, sostenuta dalle virtù della speranza e della carità, è capace di rinnovare l’azione di coloro che hanno incarichi di governo. Essa infatti dilata gli orizzonti dello sguardo umano oltre i limiti della vita mortale, rendendo i credenti capaci di perseverare nella ricerca del vero bene comune[17]. Non solo: per Agostino è bene che il cristiano partecipi in varie forme alla vita politica, ma è anche un bene per la polis che i cristiani si impegnino in essa. Tuttavia il pastore di Ippona mette in guardia anche dal pericolo che il politico cristiano si senta appagato dalla soluzione dei problemi contingenti e quotidiani della propria comunità, dimenticando che la pace, la giustizia e la concordia sono semplicemente alcune delle condizioni per aspirare a quel bene che soltanto Dio può dare[18].

All’inizio dell’epoca medievale, in un periodo segnato da grande insicurezza, il papa san Gregorio Magno (540-604), che dopo gli studi in grammatica e diritto era diventato Praefectus Urbis Romae, suscitò ammirazione per il proprio impegno civile volto alla ricerca di una pace duratura con i popoli che avevano invaso l’Europa da alcuni decenni e con i quali era iniziata una non semplice convivenza, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. In questo modo, egli si preoccupò di creare un contesto politico nel quale le popolazioni che vivevano in Italia e in Europa non fossero esposte a continue guerre[19].

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Non possono poi essere dimenticate le prime assemblee dei comuni medievali, dopo la “rinascita” dell’Anno Mille, le quali si affermarono proprio sui sagrati delle antiche cattedrali cittadine e con il sostegno dei vescovi locali, andando a colmare quel vuoto di governo che affliggeva l’Europa, dovuto soprattutto all’incapacità dell’Imperatore di controllare il proprio territorio.

Nel XIII secolo, san Tommaso d’Aquino (1225-1274) scrisse che l’amore verso i propri concittadini è uno dei modi attraverso i quali occorre esercitare l’amore per il prossimo[20]: si tratta dell’idea di “amicizia politica”, il cui oggetto proprio è il bene della città[21]. Questo insegnamento di Tommaso è molto importante, soprattutto per il fatto che ha il pregio di essere particolarmente sintetico e illuminante.

Nel XIV secolo, mentre in Europa venivano gettate le basi dello Stato Nazionale moderno e iniziavano a costituirsi i primi organi parlamentari, il beato Giovanni Duns Scoto (1265/1266-1308) introdusse la dottrina del “fondamento comunitario dell’autorità politica”, alla quale ci si può “liberamente sottoporre in tutte quelle cose che non sono contro la legge di Dio”[22]. In questo modo, il teologo francescano cominciava a introdurre una concezione laica dello Stato, che deve essere intesa in un senso positivo, sebbene storicamente abbia avuto anche uno sviluppo in senso negativo. In senso positivo, si può fare riferimento a quella che Benedetto XVI, riprendendo un’espressione di Pio XII, ha chiamato in più occasioni “sana laicità” o anche “laicità positiva”. Quest’ultima implica una distinzione tra religione e politica, che non deve portare però ad un’indifferenza o un’opposizione della politica alla legge morale. Benedetto XVI qualifica questa laicità positiva come un “ottenimento proprio del Cristianesimo e uno dei suoi fondamentali contributi storici e culturali”[23]. In senso negativo, invece, la distinzione tra religione e politica può degenerare nell’idea che i cristiani non debbano esprimere pubblicamente la propria fede, quando ad esempio sono in gioco questioni fondamentali riguardanti la dignità della persona umana; oppure che essi siano costretti a relegare le proprie convinzioni nella sfera privata o addirittura obbligati ad andare contro la legge morale nell’esercizio della loro professione.

Dalla fede vissuta non emerge meccanicamente un progetto politico: il cristianesimo è quanto di più lontano ci possa essere dalla teocrazia. Allo stesso tempo i cristiani, cittadini del mondo, percepiscono fortemente l’esigenza di esprimere il loro contributo originale alla costruzione della polis. La fede non è un’esperienza privata e individuale: essa abilita, dentro la complessità del rapporto tra diverse fedi religiose, ideali di vita e proposte, a un dialogo e un confronto per il bene di tutti. La Chiesa ha a cuore la libertà di tutti: la propria libertà di annuncio e di educazione, come la libertà delle altre fedi ed esperienze religiose o culturali.

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La modernità segna la fine dell’unità religiosa in Europa e l’avvento di nuovi problemi e scontri, insieme al costituirsi delle monarchie assolute che troveranno il loro momento di piena affermazione nel XVII secolo. Di notevole importanza, in questo periodo, è la vicenda umana e cristiana di san Tommaso Moro (1478-1535), umanista e consigliere fidato di Enrico VIII, re d’Inghilterra. Tommaso scelse il martirio pur di non seguire il proprio sovrano sulla strada dello scisma. In Utopia, il suo scritto più celebre ed enigmatico, egli non esitò a denunciare le ingiustizie sociali del tempo[24], ma seppe anche porre come limite all’arbitrio del re la propria coscienza illuminata dalla fede cattolica. In questo modo, Tommaso Moro visse fino all’effusione del proprio sangue quel necessario distacco che l’uomo politico deve avere rispetto alle questioni del suo tempo, per alzare lo sguardo verso un bene più grande e duraturo[25].

Sempre in epoca moderna, occorre ricordare l’esperienza missionaria e politica delle reducciones gesuitiche, diffusesi soprattutto nell’odierno Paraguay a partire dal XVII secolo fino alla prima metà del XVIII secolo. In questi piccoli nuclei cittadini i gesuiti lavoravano a favore dello sviluppo integrale della persona dimostrando in modo cristallino l’umanesimo che nasce dalla fede, ma secondo una visione politica tendente alla teocrazia, che mal si armonizzava con gli interessi imperiali di Spagna e Portogallo. Questa visione inoltre poneva difficoltà allo sviluppo del corretto rapporto tra religione e politica.

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Con la modernità ha inizio anche la tendenza a relegare la fede nella dimensione individuale. Questo orientamento, avviato soprattutto con il pensiero di Martin Lutero (1483-1546), condurrà ad esiti paradossali. Lutero infatti esalta la sovranità della coscienza del singolo credente rispetto all’autorità della Chiesa e dello Stato. Allo stesso tempo, però, pone le basi teoriche per il controllo dello Stato sulla religione: proprio nel momento in cui nega alla Chiesa il potere temporale, concedendole soltanto il potere spirituale. Per il monaco di Erfurt il potere politico è voluto da Dio per tenere a freno i malvagi, mentre è superfluo per i veri cristiani, gli “eletti” che vivono esclusivamente sotto il governo (eminentemente spirituale) di Dio. Il cristiano, tuttavia, è tenuto a sottomettersi all’autorità politica come atto d’amore per il prossimo, poiché essa è utile a tutta l’umanità[26]. In altri termini, distinguendo nettamente tra “vita interiore” e “vita esteriore”, Lutero è convinto che, mentre il cristiano nella propria interiorità debba riconoscere come legittima solo la legge del Vangelo, nel suo vivere politico-sociale debba conformarsi all’autorità dello Stato. Una simile posizione si spiega a partire dal suo pessimismo antropologico: Lutero è convinto che, a causa del peccato originale, la natura umana sia irrimediabilmente corrotta. In tale prospettiva, contrariamente a quanto sosteneva Tommaso d’Aquino, con la sua sola ragione l’uomo non sarebbe capax veritatis (in grado cioè di cogliere e di conoscere il vero), e pertanto sarebbe di per sé incapace di scegliere il bene e di compierlo: può farlo solo chi è predestinato da Dio, il quale dona la Sua grazia solo ad alcune persone scelte dalla sua insindacabile volontà[27].

La tragedia delle guerre di religione, conclusesi all’incirca con la fine della “Guerra dei Trent’anni” (1618-1648) e la Pace di Westfalia (1648), introducono nella cultura e nella mentalità europea l’idea che la fede non debba influenzare le decisioni politiche e le contese tra gli Stati nazionali. Questo processo porterà, nel XVIII secolo, a diversi tentativi di sottomissione della religione alle esigenze dello Stato, che tenderà ad identificarsi come unico detentore del principio razionale in base al quale la società deve essere plasmata e rimodellata. Si pensi, ad esempio, all’esperienza della Rivoluzione francese (1789), allo scontro di Napoleone con la Chiesa Cattolica culminato con la cattura di Pio VII nel 1809 e la sua prigionia durata fino al 1814, e al fenomeno del cosiddetto giuseppinismo nell’Impero austriaco. In particolare, l’influsso dell’Illuminismo sulla cultura europea porterà a ritenere che gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità possano essere affermati nella società anche a prescindere da Dio: etsi Deus non daretur per utilizzare la celebre formula che riassume la dottrina di Ugo Grozio (1583-1645) sul diritto naturale[28].

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Nel XIX secolo, in un’epoca di grandi mutamenti sociali e politici, di rivoluzioni e nuovi fermenti ideologici, l’impegno dei cristiani e della Chiesa non viene meno. In quanto sovrano dello Stato Pontificio il beato Pio IX inaugura nel 1847, un anno dopo la sua elezione al soglio di Pietro, una stagione di riforme cui si ispireranno provvedimenti analoghi in gran parte della penisola italiana. Ma Pio IX è anche il pontefice che, nel Sillabo del 1864, condannerà la tesi secondo la quale lo Stato è la fonte ultima di tutti i diritti, in quanto dotato di un potere illimitato[29]. In questo modo, Pio IX vedeva in anticipo ciò che sarebbe accaduto nel Novecento con i regimi totalitari e la supremazia violenta dello Stato sulla persona umana.

La testimonianza di una risposta cristiana alla statolatria ottocentesca è presente nel pensiero del beato Antonio Rosmini (1797-1855), sacerdote e filosofo, impegnato in prima linea nelle vicende che precedettero l’Unità d’Italia. Rosmini pone al centro della propria Filosofia del diritto la persona, definendola come il “diritto sussistente” e “l’essenza del diritto”, tanto che nessuno Stato o governo può violarne l’integrità fisica e spirituale[30]. Egli ci ricorda anche che l’azione del politico deve rifuggire dal “perfettismo”, ossia da quel “sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane”[31] (ferma restando l’esistenza di alcune azioni che sono intrinsecamente malvagie). A tal proposito, la Rivoluzione francese del 1789 sarebbe stata, secondo Rosmini, una sintesi di presupposti perfettistici e di esiti autoritari, perché fondata su un concetto di persona umana del tutto astratto e parziale (estrapolato dalle teorie rousseauiane circa la “bontà naturale” dell’essere umano), che non tiene conto dei limiti strutturali di cui l’uomo è costituito[32].

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Questo rapido sguardo alla storia fa emergere come il cristiano, pur sapendo di essere destinato a vivere oltre il tempo, non può non sentire l’urgenza di partecipare ai problemi del proprio tempo. Sono posizioni errate sia il desiderio di una fuga dal mondo, dichiarato irrimediabilmente corrotto e corruttore, sia l’ottimismo acritico che assume come criterio della propria fede la cultura e i fenomeni sociali del tempo. Il cristiano può vivere, in forza della sua fede, una profonda libertà interiore che non lo schiaccia nelle logiche mondane e che lo rende indipendente da qualsiasi forma di potere, creativo e capace di proposta in ogni contesto sociale e civile.

II

La Dottrina Sociale della Chiesa

La seconda metà del secolo XIX, a seguito dei processi dell’Unità d’Italia, dell’Unificazione tedesca e della seconda rivoluzione industriale, è stata caratterizzata in Europa da numerosi e profondi mutamenti di ordine economico, politico, culturale e sociale. Il 1873 segnò l’inizio della “Grande depressione”: la comunità mondiale si trovò a dover fronteggiare una profonda crisi che riguardò sia l’industria che l’agricoltura. Ciò indusse gli Stati europei a cercare nuovi territori da colonizzare, con l’intento di aprire nuovi mercati e tratte commerciali e di acquisire nuovi depositi di materie prime cui poter attingere. Iniziò così la fase storica denominata “imperialismo”. Quest’espansione dei domini europei, soprattutto in Africa e in Asia, ebbe innanzitutto moventi economico-politici, ma non di rado fu giustificata anche a partire da ragioni culturali: la teoria evoluzionistica (e in particolare il darwinismo sociale, che andava affermandosi proprio in quel periodo) rappresentava infatti quasi come un “dovere morale” la prospettiva, per uno stato progredito e “civilizzato”, di entrare in stretto rapporto con zone del mondo più arretrate, al fine di potervi “esportare” cultura e sviluppo[33].

La seconda rivoluzione industriale, immediatamente successiva alla recessione di fine Ottocento, determinò l’acuirsi della “questione sociale”: il crescente divario economico tra detentori di capitale e proletariato si accompagnava alle durissime condizioni di vita degli operai nelle fabbriche e nei sobborghi. Nel contesto delle due rivoluzioni industriali si diffusero le moderne forme di associazionismo dei lavoratori, come i sindacati, le società di mutuo soccorso e le cooperative. Si trattava di un fenomeno nuovo rispetto alle corporazioni, le gilde e le confraternite risalenti al medioevo e soppresse sull’onda della Rivoluzione francese.

La Chiesa si trovava perciò, in questo periodo, di fronte a nuove e importanti sfide. Gli stati liberali dell’Ottocento di fatto cercarono di estrometterla dalla vita pubblica e attuarono politiche volte alla secolarizzazione della società: furono soppressi numerosi enti di solidarietà gestiti tradizionalmente dalla Chiesa, furono chiuse o sottoposte a limitazioni le scuole fondate e dirette dagli ordini religiosi. La risposta (e la proposta) della Chiesa non tardò ad arrivare: papa Leone XIII, negli anni tra il 1878 e il 1890, pubblicò un insieme unitario di nove encicliche che segnano convenzionalmente la nascita della Dottrina sociale della Chiesa Cattolica[34].

Questi documenti intendevano offrire ai cattolici uno strumento di formazione e di orientamento nel contesto sociale e politico nuovo che caratterizzava quel periodo. Uno scenario soggetto a numerosi e repentini mutamenti, e segnato – come già si è accennato – alla rinuncia da parte della Chiesa al proprio potere temporale sui territori dello Stato Pontificio.

La Dottrina Sociale deve essere compresa pertanto come un insieme di indicazioni che la Chiesa fornisce ai cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà sul piano delle tematiche sociali, economiche e politiche, al fine di illuminare la comprensione di quanto sta avvenendo in una determinata fase della storia. Essa mostra come il messaggio umano-divino del Vangelo, unica radice del vero umanesimo, contenga in sé un criterio in virtù del quale poter giudicare e vivere ogni fenomeno o difficoltà che si presenti nella storia delle società e dei popoli. La luce del Vangelo aiuta pertanto l’uomo a comprendere come custodire, ordinare e vivere il proprio rapporto con se stesso, con gli altri (in famiglia, nella società, nelle Nazioni, nei rapporti internazionali) e con il creato. Il messaggio del Nuovo Testamento inoltre radica e vincola la Dottrina Sociale della Chiesa a una visione nella quale la persona è il supremo valore, essendo portatrice di “diritti naturali” che si radicano nella natura creata dell’essere umano e che costituiscono il primo argine alle pretese del potere.

La Dottrina Sociale della Chiesa ha per fondamento il Vangelo, che non cambia a seconda del variare delle circostanze. Al tempo stesso essa conosce un continuo sviluppo, dovuto al fatto che le realtà umane con cui è chiamata a confrontarsi sono sempre nuove e mutevoli, e all’infinita ricchezza e profondità della Parola di Dio.

A partire dal pontificato di san Giovanni XXIII (1958-1963), e soprattutto con quello di san Giovanni Paolo II (1978-2005), la Dottrina Sociale della Chiesa è stata compresa dal Magistero anche come “strada di evangelizzazione”, per il fatto che essa “annuncia Dio ed il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso”[35].

È ancora attuale oggi l’insegnamento della Dottrina Sociale? Sicuramente sì. Essa infatti è capace di leggere e interpretare analiticamente questo nostro momento storico e le vicende che lo attraversano, forte di una riflessione ininterrotta da duemila anni a questa parte. Infatti, se la nascita della Dottrina Sociale come disciplina autonoma risale a papa Leone XIII, la “riflessione sociale” della Chiesa, come ho cercato di illustrare nel primo capitolo di questo Discorso, risale ai tempi di Gesù e affonda le proprie radici già nell’epoca dell’Antico Testamento (si pensi in particolare al profeta Amos, vissuto nell’VIII secolo a.C.).

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Nell’anno 2004 il “Pontificio Consiglio Iustitia et Pax” ha dato alle stampe il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. Un testo importante, forse non sufficientemente studiato e poco conosciuto. Esso raccoglie tutti i grandi temi che sono stati oggetto di riflessione delle encicliche sociali da Leone XIII a san Giovanni Paolo II: la persona umana e i suoi diritti (capitolo III); la famiglia “cellula vitale della società” – il matrimonio “fondamento della famiglia” – la famiglia protagonista della vita sociale e la società a sostegno della famiglia (capitolo V); il lavoro umano – la sua dignità – il diritto ad esso – i diritti dei lavoratori (capitolo VI); la vita economica e la sua moralità (capitolo VII); la comunità politica – le sue autorità – il sistema democratico (capitolo VIII); la comunità internazionale e la cooperazione internazionale per lo sviluppo globale (capitolo IX); la salvaguardia dell’ambiente (capitolo X); la promozione della pace – il dovere di difendere gli innocenti – la legittima difesa – il disarmo e la condanna del terrorismo (capitolo XI); il rapporto tra fede e politica e gli impegni sociali cui sono chiamati i fedeli laici (XII).

Tante pagine del Compendio, al capitolo IV, sono dedicate inoltre ai “principi” della Dottrina Sociale della Chiesa: il “principio del bene comune”; il £principio della destinazione universale dei beni”; il “principio di sussidiarietà”; il “principio di partecipazione” e il “principio di solidarietà”.

Sono convinto che sia compito di ogni credente, e dovere particolare dei credenti impegnati nell’amministrazione della cosa pubblica o nell’ambito sociale, conoscere e approfondire queste pagine: per formare la nostra capacità di giudizio e per sostenere con ragioni pertinenti il nostro agire. Soprattutto, la via offerta dall’approfondimento della Dottrina Sociale rappresenta per ciascuno una strada sicura ed entusiasmante per approfondire il significato dell’incontro con Gesù Cristo e con la sua Parola liberatrice.

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La Dottrina Sociale della Chiesa oggi, negli anni del pontificato di papa Francesco, raccoglie l’insegnamento più importante sui temi che la riguardano attorno alla parola “ecologia”. Essa indica la strada che la comunità ecclesiale vuole vivere e proporre a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo. Con il termine “ecologia”, dunque, il Magistero non indica un insegnamento settoriale che deve prevalere sugli altri, quanto piuttosto un punto di vista da cui partire per ricomprendere tutto l’insieme dell’insegnamento sociale tradizionale.

D’altra parte è sempre stato così. Nel corso della sua storia non molto lunga (iniziata verso la fine del XIX secolo), la Dottrina Sociale della Chiesa ha privilegiato, a seconda dei vari periodi storici, alcune tematiche, che venivano segnalate come il punto centrale di interesse per illustrare l’insegnamento del Vangelo nella sua dimensione più prettamente umanistica. A fine Ottocento, con Leone XIII, centrali furono la questione del lavoro (in particolare della dignità degli operai)[36] e della libertà della Chiesa[37]; con Pio XI e Pio XII i temi della lotta ai totalitarismi[38] e della concordia tra i popoli[39]; con Giovanni XXIII la pace[40]; con Paolo VI il progresso dei popoli e la liberazione dei più poveri dalla fame[41]; con Giovanni Paolo II nuovamente il lavoro, questa volta però accostato da un diverso punto di vista e inteso come l’espressione principale della persona e dei suoi doni[42]; Benedetto XVI è stato il primo ad affrontare, nella Caritas in Veritate, il tema della globalizzazione, e perciò della finanza etica[43]. Certamente, con il passare del tempo, tutte queste riflessioni si sono approfondite e ampliate. Ma è necessario ribadire che i temi della Dottrina Sociale sono sempre gli stessi, in quanto provengono sempre dalla medesima fonte: il Vangelo. L’annuncio del messaggio di Cristo in contesti storici diversi ha imposto una riflessione sempre rinnovata intorno alle grandi questioni umanitarie che interpellano la vita della Chiesa e del mondo intero.

L’ecologia non ci parla perciò soltanto della salvaguardia dell’ambiente. In senso più appropriato, questa scienza tratta del giusto rapporto che l’uomo deve stabilire con esso. Ciò implica, ovviamente, anche quella che Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus e Benedetto XVI nel celebre Discorso del 2011 al Reichstag tedesco chiamano “un’autentica ecologia umana”[44], “un’ecologia dell’uomo”[45]. L’uomo non può prendersi cura dell’ambiente se non ha cura di se stesso e dei propri simili. La Chiesa si sforza di proporre una vera ecologia, un’ecologia integrale, e con ciò critica una visione ridotta di essa tanto diffusa nel mondo laico di questo nostro tempo, che in nome della terra disprezza la vita umana e sembra talvolta prescindere dalle differenze di dignità che esistono oggettivamente tra regno vegetale, mondo animale e dimensione umano-spirituale. Scrive papa Francesco a tal proposito: “[Ecologia] non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità. E nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità”[46].

III

La presenza dei cattolici nella politica italiana dall’Unità d’Italia ai giorni nostri

L’esperienza politica e sociale dei cattolici in Italia nell’Ottocento e nel Novecento ha sempre visto al proprio interno diverse anime e sottolineature. Durante le “Guerre d’Indipendenza” e successivamente alla presa di Roma, i cattolici – rispecchiando in ciò anche le posizioni differenti dei vescovi – sposarono posizioni conservatrici o, al contrario, liberali. Ci furono cattolici alleati della Restaurazione e, all’opposto, laici e preti che aderirono ai moti rivoluzionari. La divaricazione fra le due posizioni assunse in certi momenti toni molto aspri, già all’epoca amplificati dalla stampa.

A motivo della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, e dei provvedimenti esplicitamente anticattolici dei governi che si susseguirono negli ultimi decenni dell’Ottocento, la Chiesa visse un periodo complesso e di accesi dibattiti interni. Alcuni cattolici si mostrarono disponibili a collaborare, entro certi limiti, con il nuovo Stato; altri, più intransigenti, ritennero impossibile qualunque intesa con un Regno unificatosi in prospettiva anticattolica, anche attraverso l’annessione dello Stato Pontificio.

È noto che fin dal 1868 papa Pio IX fece proprio lo slogan coniato da padre Giacomo Margotti nel 1861 rispetto alla partecipazione dei cattolici alla vita politica dello Stato italiano: “né eletti né elettori”. Sempre il beato Pio IX emanò la disposizione conosciuta come “Non expedit”, con la quale era vietata ai cattolici la partecipazione alle elezioni politiche (ma non a quelle amministrative). Il papa interpretava così un sentimento largamente diffuso tra i fedeli.

Le vicende legate al “Non expedit” furono lunghe e travagliate, fino al suo superamento sotto il pontificato di san Pio X. Lungi dall’essere un gesto di opportunismo, come certa storiografia ha sempre interpretato, il “Non expedit” consentì la maturazione dell’impegno politico dei cattolici, evitando la costituzione di partiti animati soltanto dall’opposizione reattiva allo Stato italiano e appiattiti sulla battaglia per riguadagnare alla Chiesa qualche forma più ampia di potere temporale.

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La “questione sociale” di fine Ottocento portò con sé l’affermazione del socialismo in campo politico. Il mondo cattolico si mostrò tendenzialmente più vicino al mondo liberale che a quello della sinistra sociale. Ma una sana e vivace dialettica, fondata sul confronto ideale anche con le istanze portate avanti dalla sinistra, ha sempre caratterizzato i cattolici impegnati nel sociale, fino ai nostri giorni. È stata proprio questa dialettica, unitamente alla grande discussione sui vantaggi e gli svantaggi dell’Alleanza Atlantica, a determinare la presenza di diverse anime e correnti internamente alla Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra.

Come ho accennato all’inizio di questo mio intervento, le condizioni della politica internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale favorirono un appoggio molto marcato da parte della gerarchia verso la Democrazia Cristiana. Ma l’intervento dei vescovi non impedì l’affermarsi di molteplici sfumature all’interno dell’unico partito dei cattolici.

Nell’immaginare oggi forme nuove di presenza dei cattolici in politica non si può certamente prescindere dalla storia lontana e da quella recente. Da questo punto di vista l’Italia, come la Germania, ha rappresentato un’eccezione in Europa. In entrambe queste due Nazioni, sull’onda delle grandi esperienze sociali compiute dai cattolici tra fine Ottocento e inizio Novecento, la Chiesa, con alterne vicende, ha favorito la nascita di un “centro politico” verso cui potessero guardare sia le ali della destra liberale che quelle della sinistra socialista. Una sorta di “camera di rappresentanza” di istanze diverse, che potevano trovare nell’ampia Dottrina Sociale della Chiesa e nella laicità della politica un loro punto di compensazione e di mediazione.

Per quanto riguarda specificamente l’Italia: il sostegno aperto della Chiesa alla Democrazia Cristiana era teso anche a mostrare come i cattolici non fossero “secondi” né ai liberali né ai socialisti nel legame con la Nazione e nel desiderio di contribuire attivamente alla sua crescita. L’unità dello Stato era avvenuta ad opera dei Savoia, ma attraverso un’emarginazione di quel legame fra fede cattolica e identità nazionale che aveva costituito la storia e l’anima più profonda e più condivisa del Paese fin dal medioevo.

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Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989 segnò nella sostanza la fine della modalità espressiva dei cattolici nella politica italiana che aveva caratterizzato i decenni della Democrazia Cristiana. Radunandosi in un unico partito, essi avevano potuto lavorare in tutti i governi dal 1945 in poi. Il 1989 segnò un momento di svolta. La fine della DC era già stata in realtà emblematicamente rappresentata dai tragici giorni della prigionia e della morte di Aldo Moro nel marzo-maggio 1978.

Lo scioglimento del partito avvenne formalmente nel 1994. Esso segnò la diaspora degli stessi politici che fino a poco prima avevano militato all’interno di un’unica forza politica. Venne meno in breve tempo l’idea di un partito unico collocato al centro. I cattolici approdarono così a nuovi e distinti soggetti, a seconda dei vari orientamenti ideali personali. Tutto ciò portò, progressivamente, all’insignificanza della loro presenza a livello parlamentare e legislativo.

Al di là della lettura che si può fare di questo periodo a noi troppo vicino per poter essere analizzato in profondità, si può dire che i vescovi italiani, dopo un periodo di comprensibile shock, abbiano cercato di creare punti e strumenti di aggregazione sociale tra tutti coloro che, cattolici e non, desideravano esprimere una convergenza di intenti e di azione attorno ai temi fondamentali della vita, del lavoro, della dignità umana, della famiglia. Il merito di quest’opera è da ascrivere soprattutto al cardinale Camillo Ruini, che fu ininterrottamente segretario e poi presidente della Conferenza Episcopale Italiana tra il 1986 e il 2007. Egli ha cercato di lavorare proprio in questa direzione: creare una rete di collegamento tra le varie esperienze sociali e culturali cattoliche, per poter giungere successivamente a un nuovo tipo di espressione politica. Tutto ciò, purtroppo, non ha avuto l’esito sperato.

La sollecitazione per una nuova forma di presenza dei credenti in politica si sta rinnovando ora, durante il pontificato di Francesco. Il Santo Padre ha richiamato spesso, fin dal 2013, il dovere dei cattolici di impegnarsi nella cosa pubblica. Ha anche cercato di tratteggiare una sorta di identikit del politico ideale come creatore di legami, servitore del bene comune, sviluppatore di una cultura dell’incontro, costruttore di ponti tra le diverse condizioni sociali, culturali ed economiche, prossimo agli altri [47]. Ma, allo stesso tempo, il papa ha escluso, per l’attuale momento storico-sociale, la necessità di formare nuovamente un partito dichiaratamente cattolico[48].

Il fine unico dell’impegno dei cattolici in politica, ha spiegato papa Francesco riprendendo tesi classiche della Dottrina Sociale della Chiesa, non può che essere il bene comune. La ricerca di esso implica, per chi cerca di realizzarlo, una sorta di “martirio quotidiano”: è necessario infatti andare controcorrente per costruire una società più solidale e più giusta, al cui centro sia collocata la dignità della persona umana, e non l’interesse egoistico di un’ideologia o di alcuni gruppi[49].

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Dopo la fine della DC non sono mancate certamente nel nostro Paese esperienze significative di cattolici nell’amministrazione della cosa pubblica a livello locale. Penso ai comuni, alle province, alle regioni, alle cooperative, alle esperienze molteplici del terzo settore e del volontariato, alle numerosissime opere nate per intervenire nei vari campi dei bisogni dell’uomo. Tutto ciò però non ha saputo esprimersi finora in un raccordo più ampio, nazionale, che, pur con le infinite sfumature ammissibili all’interno del mondo cattolico, potesse veicolare con forza, efficacia e convinzione il contributo di umanesimo che l’esperienza cristiana porta con sé.

Non posso tacere, a conclusione di questi brevi appunti, un’ultima osservazione cui tengo molto: parlare di diaspora dei cattolici può implicare sottolineature differenti. Tale diaspora è stata secondo molti una necessità; per taluni invece un bene. Io considero la divisione dei cattolici in politica come una situazione contingente, che deve essere superata. Non perché auspichi il “partito dei cattolici” o la presenza dei cattolici necessariamente in un solo partito, ma perché l’esperienza della Chiesa porta dentro di sé in modo costitutivo l’esigenza di una tensione all’unità. Forse, in questi anni, più che il partito dei cattolici è venuta meno la consapevolezza di appartenere a un’unica Chiesa fondata su un’unica fede. L’appartenenza a un gruppo politico ha avuto la preminenza sull’appartenenza alla comunità cristiana. Tra i diversi fronti non c’è stata comunicazione, ma esclusione, scontro e talvolta anche scomunica. L’unità della fede deve portarci a desiderare di ascoltare e comprendere le ragioni degli uni e degli altri, e soprattutto di riconoscere nei diversi tentativi di presenza operati dai cristiani il tessuto di un’unica passione politica e di un’unica appartenenza ideale.

IV

Proposte

Desidero ora esprimere alcune proposte per la nostra Chiesa e per i tutti i credenti che vogliono impegnarsi nella vita politica della nostra Città, Provincia, Regione e Nazione.

1. Oggi generalmente si cerca di radunare attorno a un tavolo i cattolici impegnati in politica, molto spesso all’interno di partiti diversi, per verificare l’esistenza o meno di un insieme di valori comuni su cui impegnarsi unitamente. Non credo che questa sia la strada prioritaria. Coerentemente con quanto ho detto precedentemente, ritengo che il primo movimento debba essere quello di radunare i politici credenti, a partire da quelli della nostra Diocesi, aderenti a qualunque partito o movimento, per compiere con loro i passi di un’educazione comune alla fede.

Non voglio radunare i credenti per parlare di politica, ma vorrei incontrare i politici credenti per parlare della fede[50]. Penso soprattutto ai giovani, non segnati dal dibattito passato che ha creato tante lontananze e idiosincrasie. In loro si può ritrovare quella freschezza necessaria per un lavoro comune, così come la ricchezza di tanti accenti diversi. Durante gli ultimi decenni, purtroppo, i cattolici, divisi da appartenenze partitiche diverse, hanno finito con il non parlarsi più; anzi, addirittura a dileggiarsi e auto-scomunicarsi tra loro.

Comprendo che questa mia proposta possa essere ritenuta “strana” da taluni, e sicuramente è anche molto impegnativa. Ma quand’anche ci fosse un piccolo numero di politici disponibili a compiere questo percorso, esso costituirebbe sicuramente un seme nuovo e un nuovo inizio. Per i giovani, poi, l’impegno sociale e politico deve essere da noi riproposto alla luce di una consapevolezza più profonda della “vita come vocazione”[51], nei termini di un servizio per la costruzione del Regno di Dio nel mondo.

2. Stefano Zamagni ha affermato recentemente: “Quando è iniziata la diaspora, i cattolici hanno smesso di pensare, di generare cultura politica. Oggi ci troviamo con un vuoto di cultura politica preoccupante”[52]. Condivido in pieno queste parole. Esse, forse, saranno sentite in concorrenza o addirittura in contrasto con quanto andavo dicendo sopra. In realtà non è così. È proprio la povertà di una fede non pensata e non vissuta in tutte le dimensioni della vita a determinare l’aridità del pensiero e della riflessione, che si riflette anche nei giudizi sulle vicende sociali e politiche. Non voglio assolutamente affermare che la fede generi di per sé un’unica cultura politica, ma essa, quando è vissuta, genera una passione che muove allo studio, alla ricerca, all’individuazione di strade nuove e nello stesso tempo legate alla tradizione, che portano con sé lo slancio della partecipazione all’agone politico così come il rischio di una presenza nella società civile e statale. Nel medesimo discorso, Zamagni parla di “un pensiero che sia in linea con i principi fondativi della Dottrina Sociale e traduca in proposte concrete ciò che quei principi dicono”[53]. Ho già parlato del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, testo che dovrebbe essere studiato e assimilato da tutti quei cattolici che, in qualunque partito vogliano militare, aspirano a dare il loro contributo alla vita del Paese. È naturale che sensibilità diverse e opzioni politiche differenti possano portare a diverse sottolineature e priorità. Ma tutto ciò è un arricchimento, non una contraddizione. Allo stesso tempo, il riferimento a una comune sintesi di Dottrina Sociale può essere, per ciascuno, la possibilità di aprire le finestre del proprio cuore e della propria mente verso temi forse esclusi a priori o addirittura cancellati dalla propria considerazione.

3. Faccio mie le parole e le osservazioni espresse dai più illuminati pensatori e politici che, partendo da sensibilità e affiliazioni ideali diverse e talvolta precorrendo i tempi, ci hanno ricordato – e tuttora ci rammentano – la grande deriva individualistica e libertaria in cui sta sprofondando il nostro Occidente[54]. La cultura dell’individualismo ha finito con il mettere quasi completamente tra parentesi i “corpi intermedi”. “Quando questo avviene, la democrazia non è più tale. Essa non può fare a meno dei corpi intermedi”[55]. La proposta di Zamagni, che pienamente condivido, è di riproporre il modello tripolare di ordine sociale: Stato – mercato – comunità. Tutto ciò impone una nuova riflessione sul welfare, grande conquista di civiltà del nostro Occidente. Una versione statalista di esso ha pensato che solo lo Stato dovesse occuparsi dei cittadini, “dalla culla alla bara”. Oggi questo welfare è decisamente in crisi. Occorre ridisegnarlo. Occorre ripensare al ruolo delle comunità intermedie e al valore dell’appartenenza ad esse. I “corpi intermedi” possono intervenire efficacemente nella coniugazione tra iniziativa pubblica e privata per la cura dei cittadini. Allo stesso modo l’economia di mercato può e deve essere immaginata coniugando il principio di utilità con il principio di reciprocità. Non si può pensare al successo del mercato se si esclude il valore della famiglia, delle libere comunità intermedie, del sostegno all’ambiente etc. Occorre allontanarsi da ogni forma di neostatalismo e di neoliberismo.

4. Si parla oggi tanto di un “nuovo umanesimo”. Quale significato attribuire a questa parola, e soprattutto all’aggettivo che le è posto accanto? In realtà ciascuno la interpreta secondo le proprie coordinate culturali o addirittura secondo i propri preconcetti. Penso che “neo-umanesimo” significhi innanzitutto salvare l’uomo da se stesso, da tutto ciò che può comprometterne il futuro. Non, come alcuni affermano oggi, perseguire un'”evoluzione” pilotata dall’uomo stesso, attraverso una crescente ibridazione e compenetrazione con la tecnologia. Chi ipotizza un progetto trans-umanista, in cui non esisterà più alcuna differenza tra l’uomo e la macchina, dimentica che il concretizzarsi di quest’ipotesi si rovescerebbe nella sua sconfitta. Senza uomo non c’è più pensiero, non c’è più libertà, non c’è più creatività. Senza uomo finisce il mondo. Si apre così un campo enorme, non solo di riflessione, ma anche di azione politica. Nelle legislazioni di numerosi Stati, come nel sentire comune, si sta progressivamente affermando una tendenza a ridurre l’uomo a semplice meccanismo, ad individualità “neutra” ed intercambiabile, o ancora ad oggetto di consumo: il valore dell’esistenza di ciascuno è giudicato in base a parametri tecnico-economici, in termini di funzionalità, efficienza, produttività, qualità di vita, mercato. Non deve accadere che questo tipo di sguardo, coniugato con il mondo dell’economia globalizzata, finisca per cancellare l’esperienza dell’umano che ha reso grande il nostro Occidente negli ultimi tre millenni. Ciò significa, tra le altre cose, riconsegnare l’economia ad un’etica, sottraendola prima al governo brutale di un piccolo gruppo di gestori delle finanze e dell’industria tecnologica, che in ragione dei propri profitti non si fanno scrupolo di mettere in serio pericolo la libertà dell’uomo e di manipolarne la natura.

Conclusione

Credo profondamente che non stiamo vivendo una corsa verso la distruzione, quanto piuttosto un periodo di disorientamento che può positivamente sfociare in un nuovo slancio umanistico. Nessuno oggi può dire se questa speranza si realizzerà. Tutti però dobbiamo lavorare per essa. Soprattutto noi credenti che, attingendo all’esperienza di duemila anni di storia cristiana, in cui pagine nuove e diverse sono state scritte lungo i secoli, possiamo dare un contributo fondamentale a un nuovo disegno di civiltà. Ad una politica che non pensi soltanto al successo elettorale della propria parte, ma innanzitutto al lungo lavoro di studio, riflessione e slancio ideale che sono sempre alla base di nuove epoche della storia. Ad un’economia che ritrovi il senso della felicità dell’uomo non nell’accumulazione continua di beni, ma nella disponibilità di essi a un sempre maggior numero di persone.

È un’indubbia verità che nel nostro tempo si siano compiuti significativi passi verso una qualità di vita migliore, anche rispetto al recente passato. Intere popolazioni sono state sottratte alla povertà, hanno una casa che non avevano, un lavoro, un accesso all’acqua e ai beni essenziali che prima costituivano per loro un sogno. Ma è anche vero che esistono ancora disparità intollerabili. Dio ha colmato la terra di beni e ha concesso all’uomo intelligenza e creatività, affinché ciascuno possa vivere con dignità. Questo è il traguardo verso cui dobbiamo camminare. Esso sarà possibile soltanto se negli uomini maturerà una concezione dell’esistenza in cui la persona sia riconosciuta nella sua dignità, dal concepimento fino alla parte terminale della sua vita, qualunque sia la sua cultura, la sua lingua, l’etnia di provenienza.

Non basta dire che all'”io” deve sostituirsi il “noi”. Questo è certamente un passo fondamentale. Ma quale “noi” vogliamo costruire? Oltre ai diritti dell’individuo, per cui tanto si è lottato dopo la Seconda guerra mondiale, occorre riscoprire una tavola di doveri. Soprattutto occorre riaprire la mente dell’uomo alla trascendenza, alla scoperta che Dio non è un ospite indesiderato o peggio ancora nemico dell’uomo, ma è il Padre di tutti, è il fondamento necessario di ogni dialogo tra le culture. Ripartendo dalla sua presenza nella storia dell’uomo, possiamo riscoprire ciò che può essere accettato da tutti, ciò che è inaccettabile, ciò che dobbiamo tollerare o rispettare. Senza Dio anche la costruzione di una città per l’uomo finisce per essere un traguardo impossibile: l’uomo diventa la misura di se stesso e la violenza si insinua come unica strada risolutrice dei conflitti. Se apriamo il nostro cuore a Dio e la nostra vita presente alla sua paternità, ritroveremo il fondamento per una nuova stagione politica positiva e benefica per il nostro Paese.

Appendice

“Nota del Vescovo” in vista delle elezioni comunali di Reggio Emilia e di molti altri Comuni presenti sul territorio della Diocesi

26 aprile 2019

Ripubblico qui la Nota che ho diffuso nell’aprile scorso, in vista delle elezioni amministrative in molti comuni presenti sul territorio della Diocesi, svoltesi il 26 maggio 2019: questo testo può indicare alcune strade per l’inizio di quel lavoro comune che ho auspicato al termine del mio Discorso alla Città e alla Diocesi.

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Si avvicinano per la nostra città di Reggio Emilia e per moltissimi altri comuni presenti sul territorio della nostra Diocesi, le elezioni amministrative, che coincideranno con quelle europee. Desidero raggiungere tutti i potenziali elettori, credenti e non, con questa mia Nota, rivolta in particolar modo a coloro che desiderano un orientamento da parte del vescovo. O conoscere comunque il suo pensiero.

Partecipare alle elezioni è un diritto-dovere di tutti. Non è assolutamente indifferente, infatti, per il bene della vita di una città e dei suoi componenti, che essa sia amministrata da persone di un orientamento o di un altro. Il mio primo invito perciò è a partecipare a queste elezioni, dopo aver cercato di conoscere, in questo tempo che ci resta, programmi e proposte delle liste e dei candidati.

Non è un compito facile. Non sempre le promesse elettorali corrisponderanno alla volontà effettiva degli uomini e delle donne che saranno eletti. Le liste poi, spesso, portano al proprio interno posizioni diverse, anche su temi importanti, addirittura su temi decisivi, come quelli che riguardano la concezione della persona umana, della vita dalla nascita alla morte e dei rapporti nella società. Mi rendo conto perciò di consigliare, a chi lo desidera, un compito difficile. D’altra parte soltanto eleggendo persone conosciute e il più possibile corrispondenti al proprio ideale di vita, adempiremo al compito che ci è assegnato come elettori.

Non spetta al vescovo, naturalmente, indicare né liste né persone. Non l’ho mai fatto e non lo farò neppure ora. Con ciò non voglio mostrare nessuna equidistanza. Per questa ragione mi permetto di elencare alcuni criteri per la scelta.

Mi auguro che siano elette persone che abbiano a cuore la difesa della vita in ogni momento del suo svolgimento, persone che abbiano a cuore la maternità e il diritto alla vita del concepito, candidati perciò che si facciano promotori di una politica di aiuto alla famiglia e alla nascita, alle ragazze madri, ai consultori e alle associazioni che sostengono il diritto alla vita.

A tutto ciò è legato anche il diritto al lavoro, che va promosso anche attraverso il sostegno alle imprese, soprattutto a quelle di piccole dimensioni che faticano a trovare percorsi di continuità e ad essere finanziate dalle banche.

Dobbiamo sostenere candidati che abbiano a cuore il diritto allo studio, il sostegno ai ragazzi più disagiati e a quelli meritevoli. Auspico anche una continuità con la politica di sostegno alle scuole paritarie, come già avvenuto negli scorsi anni.

Nell’itinerario della persona non possiamo assolutamente trascurare il sostegno a coloro che desiderano far famiglia. Nel rispetto assoluto delle persone e dell’affettività di ciascuno, deve essere riconosciuta l’importanza della famiglia formata dall’incontro stabile fra l’uomo e la donna, nucleo centrale del formarsi della società civile, della trasmissione della vita e dell’educazione dei figli.

Le nostre città oggi sempre più vedono la presenza di anziani, talvolta soli, malati, bisognosi di assistenza e di cure. Una vera civiltà umanistica si deve aprire alla considerazione dell’importanza dell’anziano come persona ricca di memorie, di storia e, talvolta, funzione educativa indispensabile verso i nipoti e i più piccoli. Le famiglie vanno aiutate a custodire in casa i loro genitori e nonni. Nel caso in cui sia indispensabile il loro ricovero, una comunità veramente matura è chiamata a sostenere le case di accoglienza e di cura.

Particolare attenzione deve essere rivolta a coloro che si trovano in una situazione finale della vita, senza più speranza di interventi medici risolutori. Gli hospice e i luoghi delle cure palliative devono aiutare le famiglie nei momenti spesso drammatici e talvolta prolungati in cui i nostri anziani perdono ogni possibilità di relazione e di coscienza. Di fronte a una cultura dell’eutanasia, che vorrebbe cancellare la realtà della malattia e della morte dagli schermi della vita, siamo chiamati a scegliere candidati alle elezioni che manifestino una chiara coscienza anti-eutanasica.

La nostra città non conosce certo le situazioni di povertà e di degrado presenti in altri luoghi del Paese. È pur vero, però, che solitudine, perdita del lavoro, malattia, assenza di legami sociali hanno accentuato in questi anni molte situazioni di povertà. Molto è stato fatto da parte delle autorità pubbliche e della Chiesa per sovvenire a tutto questo. I candidati alla gestione del nostro Comune devono manifestare una chiara sensibilità verso le forme antiche e nuove di povertà.

Allo stesso modo mi permetto di riaffermare quanto ho detto in molteplici occasioni nei confronti della realtà dei migranti. Anche se il numero di essi è notevolmente ridotto rispetto al recente passato, nessuno di noi può sapere quale sarà il futuro. Accoglienza e integrazione devono essere perciò le due grandi direttive che dovranno muovere la politica comunale. Senza integrazione infatti non vi è vera accoglienza, vero rispetto della persona, e soprattutto mancano completamente le prospettive per il futuro, favorendo all’opposto situazioni di possibile violenza e criminalità.

Non mi sembra di secondaria importanza la politica culturale, che la futura amministrazione, qualunque essa sia, intenderà promuovere. La cultura infatti è una chiave fondamentale per la promozione della persona in tutte le dimensioni della sua visione del mondo e della sua capacità di operare. Occorre favorire una cultura che apra l’uomo oltre a ogni barriera ideologica e ogni schema politico.

All’interno di una politica di promozione e sostegno dei giovani, del lavoro, della famiglia, grande importanza assume il sostegno allo sviluppo della nostra università e all’accoglienza degli studenti.

Da ultimo, ma non certo per importanza, i candidati all’amministrazione del Comune devono avere una vera consapevolezza del bene rappresentato dalla salvaguardia della bellezza e della realtà stessa della natura. Nuove forme di energia, smaltimento dei rifiuti, aiuto al crescere di una sana ecologia sono strade fondamentali del bene comune.

Mi rendo conto di avere delineato, in questa lunga Nota, le caratteristiche di un candidato ideale. Sarà forse impossibile trovare persone che incarnino tutti questi valori. È compito nostro discernere e individuare quelle persone che ad essi più si avvicinano.

[1] Cf. L. Sturzo, Appello ai Liberi e Forti (18 gennaio 1919). Il testo dell'”Appello” è agevolmente reperibile in rete (ad es. all’indirizzo http://www.cattolici-liberali.com/idee/appellodonsturzo.aspx).

[2] Nel 1912 il diritto di voto era stato esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai trent’anni, a prescindere dal censo. Tale estensione sarebbe stata ulteriormente ampliata proprio nell’agosto 1919, con l’allargamento del suffragio a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i 21 anni o prestato servizio militare. Questa stessa riforma avrebbe introdotto il sistema proporzionale, più “premiante” per i partiti di massa – come il Partito Popolare o il Partito Socialista – che si stavano progressivamente affermando.

[3] G. Bassetti, Discorso introduttivo alla sessione invernale del Consiglio permanente della CEI (14 gennaio 2019); Omelia nella chiesa dei Santi Apostoli di Roma (18 gennaio 2019); Da Caltagirone un appello al cuore del Paese. Discorso introduttivo pronunciato al Convegno internazionale in occasione del Centenario dell’appello “A tutti gli uomini Liberi e Forti” (Caltagirone 15 giugno 2019). Così il Card. Bassetti concludeva il suo intervento: “L’appello di Sturzo continua a parlare all’uomo di oggi, interroga profondamente la nostra società così marcatamente individualista e soprattutto esorta ad una riflessione profonda tutti i cattolici. Perché quell’appello […] è il prodotto di una stagione alta e nobile del cattolicesimo politico italiano che ha dato un contribuito fondamentale a costruire l’Italia contemporanea e a formare una civiltà basata sull’umanesimo cristiano. Una civiltà basata sulla centralità della persona umana e che rinuncia, in nome del Vangelo, ad ogni volontà di oppressione del povero, ad ogni mercificazione del corpo umano e ad ogni rigurgito xenofobo. Oggi come ieri essere “liberi e forti” significa andare controcorrente, rimanendo fedeli al Vangelo in ogni campo dell’agire umano, anche in quello politico, e farsi annunciatori gioiosi dell’amore di Cristo con mitezza, sobrietà e carità. […] Essere “liberi e forti” significa farsi difensori coraggiosi della dignità umana in ogni momento dell’esistenza: dalla maternità al lavoro, dalla scuola alla cura dei migranti. Perché, in definitiva, la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia”.

[4] Pio XI, Udienza del Santo Padre ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica (18 dicembre 1927). Il testo è reperibile in: D. Bertetto (a cura di): Discorsi di Pio XI. Volume I 1922-1928, Società Editrice Internazionale, p. 745; L’Osservatore Romano, 23 dicembre 1927, n. 296, 3, coll. 1-4.

Affermò in quell’occasione papa Pio XI: “E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di tutte le società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore”. E inoltre: “Tutti i cristiani sono obbligati ad impegnarsi politicamente. La politica è la forma più alta di carità, seconda sola alla carità religiosa verso Dio”. La medesima espressione è stata ripresa in tempi recenti anche da papa Francesco. Cf. Francesco, Discorso in occasione dell’Udienza agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e in Albania (7 giugno 2013).

[5] “Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell’ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamenti del Vangelo. Il rifiuto d’obbedienza alle autorità civili, quando le loro richieste contrastano con quelle della retta coscienza, trova la sua giustificazione nella distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica”. Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 2242.

[6] Lettera a Diogneto, V, 1-5; 9-12.

[7] Lettera a Diogneto, VI, 1-8; 10.

[8] J. Danièlou, La preghiera come problema politico, Marietti 1968, p. 9.

[9] Il testo dell’intero Discorso è stato pubblicato dalla rivista “Studi Romani”, anno X, settembre-ottobre 1962, n. 5, pp. 502-505.

[10] Cf. A. Fliche – V. Martin, Histoire de l’Église depuis les origines iusqu’à nos iours, vol. XXII/2 [Le Pontificat de Pie XI (1846-1878)]; trad. it. Di: D. Salvatore Marsili, Storia della Chiesa, vol. XXII/2 [Il pontificato di Pio IX (1846-1878)], p. 567.

[11] Si veda ad esempio la testimonianza di: Gregorio di Nazianzo, Discorsi, 43.

[12] Cf. C. Moreschini, I Padri Cappadoci. Storia, letteratura, teologia, Città Nuova, Roma 208, pp. 18-23.

[13] Cf. Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro, a cura di M. Signifredi, Città Nuova, Roma 2009.

[14] Benedetto XVI, “Lettera Enciclica Caritas in Veritate” (29 giugno 2009) n. 11.

[15] Ambrogio, Epistulae, 40, 2.

[16] Cf. Agostino, Confessioni, III, 8.

[17] Cf. Agostino, La Città di Dio, XIX, 17; Epistola 133, 2-3; Epistola 138, 5, 17.

[18] Cf. Agostino, Epistola 155, 3, 10.

[19] Cf. L. Brehier – R. Aigrain, Histoire de l’Église depuis les origines iusqu’à nos iours, vol. V [Grégoire le Grand, les Etats barbares et la conquéte arabe (590-757)]; trad. it. di S. Bertola – G. Destefani, Storia della Chiesa, vol. V [San Gregorio Magno, gli stati barbarici e la conquista araba (590-757)], San Paolo, Torino 19712, pp. 96-101.

[20] Cf. Tommaso d’Aquino, Commento alle Sentenze, III, d. 29, q. 1, a. 6

[21] Cf. Tommaso d’Aquino, Questioni disputate sulle virtù, q. 2 a. 7.

[22] Cf. Giovanni Duns Scoto, Ordinatio, IV, d. 15, a. 2.

[23] Benedetto XVI, Discorso a S.E. Cristina Castaner-Ponce Enrile, Ambasciatore delle Filippine presso la Santa Sede (27 ottobre 2008). Cf. anche: Benedetto XVI, “Lettera Enciclica Deus caritas est” (25 dicembre 2005) n. 28.

[24] Cf. Tommaso Moro, Utopia, Lib. I.

[25] Cf. Tommaso Moro, Lettera dalla prigionia, Boringhieri, Torino 1968.

[26] Cfr. Martin Lutero, Sull’autorità secolare. Fino a che punto si sia tenuti a prestarle obbedienza (1523), in Scritti politici, UTET, Torino 1949.

[27] Cfr. Martin Lutero (1525), Il servo arbitrio, trad. it. a cura di F. De Michelis Pintacuda, Claudiana, Torino 1993.

[28] Cf. U. Grozio (1625), De jure belli ac pacis, Prolegomena. Per la traduzione italiana: U. Grozio, Il diritto della guerra e della pace. Prolegomeni e libro primo, a cura di F. Arici – F. Todescan, CEDAM, Padova 2010.

[29] Pio IX (1864), Syllabus, prop. XXXIX (il testo in italiano del Sillabo, che Pio IX pose in calce all’enciclica Quanta cura, è reperibile all’indirizzo https://w2.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html).

[30] A. Rosmini (1841-45), Filosofia del diritto, a cura di A. Nicoletti – F. Ghia, Città Nuova, Roma 2015, IV, n. 898.

[31] A. Rosmini (1836-39), Filosofia della politica. Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, Rusconi, Milano 1972, p. 111.

[32] G. Campanini, Rosmini politico, Giuffrè, Milano 1990, p. 58. Il riferimento rosminiano resta, su questo punto, la già citata Filosofia della politica.

[33] Il simbolo di questo atteggiamento culturale è certamente la celebre poesia di: Rudyard Kipling, Il fardello dell’uomo bianco (1899).

[34] Lo stesso papa Leone XIII nell’anno 1902 indicò quali fossero le encicliche principali del suo pontificato, il cosiddetto “Corpus leonianum”, e le elencò in un ordine ideale, non cronologico: Aeterni Patris (1879), sulla filosofia cristiana; Libertas (1888), sulla libertà umana; Arcanum Divinae Sapientiae (1880), sul matrimonio cristiano; Humanum Genus (1884), sulla massoneria; Diuturnum illud bellum (1881), sui poteri politici; Immortale Dei (1885), sulla costituzione cristiana degli Stati; Quod Apostolici numeris (1878), sul socialismo; Rerum Novarum (1891), sulla questione operaia; Sapientiae christianea (1890), sui principali doveri dei cittadini cristiani.

[35] Giovanni Paolo II, “Lettera Enciclica Centesimus Annus” (1° settembre 1991) n. 54

[36] Cf. Leone XIII, “Lettera Enciclica Rerum Novarum” (15 maggio 1891).

[37] Cf. Leone XIII, “Lettera Enciclica Libertas” (20 giugno 1888).

[38] Cf. Pio XI, “Lettera Enciclica Non abbiamo bisogno” (29 giugno 1931); “Lettera Enciclica Mit Brennender Sorge” (14 marzo 1937).

[39] Cf. Pio XII, “Lettera Enciclica Anni Sacri” (12 marzo 1950); “Lettera Enciclica Summi Maeroris” (19 luglio 1950).

[40] Cf. Giovanni XXIII, “Lettera Enciclica Pacem in terris” (11 aprile 1963).

[41] Cf. Paolo VI, “Lettera Enciclica Populorum Progressio” (26 marzo 1967).

[42] Cf. Giovanni Paolo II, “Lettera Enciclica Laborem Exercens” (14 settembre 1981); “Lettera Enciclica Sollicitudo Rei Socialis” (30 dicembre 1987); “Lettera Enciclica Centesimus Annus” (1 maggio 1991).

[43] Cf. Benedetto XVI, “Lettera Enciclica Caritas in Veritate” (29 giugno 2009).

[44] Giovanni Paolo II, “Lettera Enciclica Centesimus Annus” (1° settembre 1991) n. 38; cit. in: Francesco, “Lettera Enciclica Laudato Si'” (24 maggio 2015) n. 5.

[45] Benedetto XVI, Discorso al Reichstag in occasione del Viaggio apostolico in Germania (22 settembre 2011).

[46] Francesco, “Lettera Enciclica Laudato Si'” (24 maggio 2015) n. 90; cf. Benedetto XVI, “Lettera Enciclica Caritas in Veritate” (29 giugno 2009) n. 14.

[47] Francesco, Discorso del Santo Padre ai parlamentari e ai politici della provincia di Marsiglia (Francia) (12 marzo 2008).

[48] Francesco, “Esortazione Apostolica Evangelii gaudium” (24 novembre 2013) n. 205; Discorso in occasione dell’Udienza agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e Albania (7 giugno 2013); Omelia durante la Messa nella cappella di Santa Marta (15 settembre 2013); Incontro con le comunità di vita cristiana (CVX) e la Lega missionaria studenti d’Italia (30 aprile 2015); Discorso a un gruppo della Pontificia commissione per l’America Latina (4 marzo 2019).

[49] Francesco, Incontro con le comunità di vita cristiana (CVX) e la Lega missionaria studenti d’Italia (30 aprile 2015).

[50] “La fede viene prima di tutto: prima dell’impegno sociale, prima della cultura e prima della politica. Sturzo è uno dei grandi cattolici italiani del Novecento che hanno testimoniato con la propria vita che la roccia della propria esistenza è Cristo. E questa fede in Cristo si traduceva poi nella fedeltà alla Chiesa anche quando insorgevano difficoltà o visioni difformi”. G. Bassetti, Da Caltagirone un appello al cuore del Paese, cit.

[51] Cf. L. Giussani, “Vita come vocazione” (1959), in: Porta la Speranza, Marietti 1820, 1997, pp. 163-167.

[52] S. Zamagni, Intervento all’Istituto Veritatis Splendor, Bologna 25 maggio 2019, pro manuscripto.

[53] S. Zamagni, Intervento all’Istituto Veritatis Splendor, Bologna 25 maggio 2019, pro manuscripto.

[54] Cf. per esempio Z. Bauman, Vita liquida (2005), trad. it. di M. Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2006; M. Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna (2011); M. Bock-Côté, Le nouveau régime. Essais sur le enjeux démocratiques actuels, Les Éditions du Boréal, Montréal (2017); A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Nino Aragno Editore, Torino (1978; ²2004); C. Lasch, La cultura del narcisismo (1979), trad. it di M. Bocconcelli, Bompiani, Milano 1981; G. Thibon, Diritti senza doveri, in: “Studi Cattolici”, n. 230-231, aprile-maggio 1980, pp. 273-274; T. Wolfe, Il decennio dell’Io (1976), trad. it. di M. Saracini, Castelvecchi, Roma 2013.

[55] S. Zamagni, Intervento all’Istituto Veritatis Splendor, Bologna 25 maggio 2019, pro manuscripto.