Meditiamo le parole di Papa Francesco

Don Giuseppe Dossetti

Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario, Anno C – 15 settembre 2019

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

“Egalitè”, uguaglianza: la condizione perché ci sia democrazia è che venga riconosciuta l’uguale dignità di ogni uomo, per il solo fatto di essere uomo. La Costituzione italiana, per esempio, dice all’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Tuttavia, ci si dovrebbe chiedere quale sia il fondamento di questa uguaglianza, soprattutto in un momento, come questo, che sembra dar ragione alla frase di Orwell, che sembra un sogghigno amaro: “Tutti gli uomini sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri”. Persino il linguaggio corrente trasmette diseguaglianza, estraneità. Un esempio: nei discorsi degli uomini politici è ormai uso corrente parlare degli avversari senza nominarli: “loro” hanno detto, “loro” pensano … L’avversario non ha diritto neanche al nome, che lo riporterebbe nell’orizzonte di una responsabilità comune e reciproca; la differenza sembra non essere più politica o ideologica, ma morale e antropologica: di qua il bene, di là il male.

Viviamo in un mondo che sta sempre più enfatizzando le differenze, con il risultato di produrre violenza e guerra. C’è chi, come i fanatici religiosi, contrappongono i giusti e i malvagi, i veri adoratori e gli empi: la sottomissione degli empi e, nel caso che essi rifiutino, la loro uccisione diventa un atto di virtù e motivo di gloria. Vi è la violenza castale, che viene esercitata nei confronti di chi vuole mutare l’ordine costituito: in India, essa ha motivazioni filosofico-religiose. Ma dobbiamo stare attenti anche noi, poiché, insensibilmente, ci abituiamo a vedere l’umanità divisa in cerchi sempre più ristretti. Gli immigrati che arrivano coi barconi sono i nuovi barbari, che minacciano la Festung Europa. Pensare agli uomini come diseguali porta insensibilmente alla guerra, con l’aggravante di giustificarla moralmente.

Cosa c’entra tutto questo con la parabola del figliol prodigo o, meglio, del padre misericordioso?

Essa riassume magnificamente il messaggio di Gesù. Egli sconvolge le categorie religiose basate sull’idea di merito; la religione farisaica trasforma Dio in un idolo, garante di un ordine gerarchico nel quale vigono meccanismi di esclusione: “Questo tuo figlio!”, dice il fratello maggiore al padre, protestando per un trattamento che egli non considera equo e affermando di non voler avere nessun rapporto con colui che ormai considera un estraneo. Il padre lo ammonisce con delicatezza, poiché anche quest’uomo arido e rancoroso è un figlio: “Tu sei sempre con me!”; in altre parole, cosa mi vieni a parlare di vitelli e capretti? Io non conto nulla per te? Il mio amore, il condividere la mia vita, non sono beni preziosi? Non ti rendi conto del dolore, della disperazione, dell’umiliazione di questo “tuo fratello, che era morto ed è tornato in vita”? Egli non è solo mio figlio, ma è anche tuo fratello.

Troppe volte, anche noi trasformiamo Dio nel Grande Orologiaio di Leibnitz, nel Supremo Giudice, nel gestore del bazar delle grazie. Ma Dio è Padre, secondo Gesù, e ha di mira non una giustizia astratta, ma l’uomo, la sua dignità. Egli riveste il figlio del vestito da festa e gli mette al dito l’anello, distintivo degli uomini liberi.

Ingenuità? Ma non è questa la vera uguaglianza, quella che considera il valore della persona e non le sue opere, le sue prestazioni, i suoi meriti? La vera democrazia nasce da qui, quando l’uguaglianza formale si coniuga con la solidarietà, che è la variante politica dell’amore, quando una città considera ogni essere umano capace di dare un contributo, quando sappiamo costruire percorsi che permettano a chi si è perduto, nel momento in cui viene toccato dal dolore, di ritornare.

Meditiamo le parole di Papa Francesco: “Quando Dio chiede alla coscienza dell’uomo: «Dov’è Abele tuo fratello?», Caino risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Anche a noi è rivolta questa domanda e anche a noi farà bene chiederci: Sono forse io il custode di mio fratello? Sì, tu sei custode di tuo fratello! Essere persona umana significa essere custodi gli uni degli altri! E invece, quando si rompe l’armonia, succede una metamorfosi: il fratello da custodire e da amare diventa l’avversario da combattere, da sopprimere. Quanta violenza viene da quel momento, quanti conflitti, quante guerre hanno segnato la nostra storia! Basta vedere la sofferenza di tanti fratelli e sorelle. Non si tratta di qualcosa di congiunturale, ma questa è la verità: in ogni violenza e in ogni guerra noi facciamo rinascere Caino. Noi tutti! E anche oggi continuiamo questa storia di scontro tra i fratelli, anche oggi alziamo la mano contro chi è nostro fratello. Anche oggi ci lasciamo guidare dagli idoli, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte!”.