La storia. Fa l’imprenditore, paga le tasse, ma da 10 anni è un rifugiato politico

Youssef Mobayed

di Ferruccio Del Bue

Fuggito dalla guerra in Siria, da 10 anni in Italia, fa l’imprenditore, paga regolarmente le tasse, ma per il nostro Paese resta un rifugiato politico.
Per la serie storie di vita, raccontiamo oggi il lungo viaggio di Youssef Mobayed, nato 47 anni fa ad Aleppo da una famiglia cattolica (culto praticato in quella terra dall’8% della popolazione), imprenditore noto e stimato nel proprio Paese per la gestione di tre ristoranti di successo, poi costretto a lasciare la Siria per scampare alla guerra, abbandonando ogni suo bene sbriciolato dalle bombe.

“Sono arrivato a Gallarate (Milano) nel 2012 – spiega in un fluente italiano Youssef Mobayed, seduto dietro la scrivania dell’ufficio che ha sede in una bella villa liberty sui controviali di via Emilia Santo Stefano, a 2 passi dal centro storico di Reggio Emilia -. Tramite il console siriano in Italia ho ottenuto lo status di rifugiato politico e mi è stato ritirato il passaporto. Dopo 5 anni avrei dovuto ricevere la cittadinanza italiana”.

Ma ben presto Youssef Mobayed, oltre a ricostruirsi daccapo una nuova esistenza, deve imparare a fare i conti con l’italica burocrazia, ostacolo arduo da superare. Racconta: “Non avevo più nulla e da subito ho iniziato a lavorare”. La sua professione, nel giro di breve tempo, lo ha condotto a Reggio Emilia, dove da 7 anni ha sede la sua attività: esporta prodotti italiani all’estero, in prevalenza in paesi del Medio Oriente. Per il suo lavoro è di primaria importanza potere viaggiare, ma lui questo non può farlo, è un rifugiato politico, senza il passaporto.

“Mi hanno detto che nei 5 anni in attesa della cittadinanza, per tre avrei dovuto pagare le tasse. E l’ho fatto”. Ma la situazione non si è sbloccata.
“No – spiega l’imprenditore -. Quando ho raccolto e presentato la documentazione, mi è stato chiesto di pagare le tasse non come come azienda, della quale peraltro sono unico socio, ma come singolo cittadino. Così, mi sono dato uno stipendio, e per altri 3 anni ho onorato ancora le tasse”.

Ancora nessun segnale della cittadinanza. “Visto che non posso più fare ritorno in Siria, mi hanno invitato a compilare un’autocertificazione nella quale dichiaro di non avere commesso reati nel corso del mio passato. Solo per presentare questa carta, l’appuntamento mi è stato dato 8 mesi dopo. Mi avvalgo di un avvocato in modo che la regolarità della mia posizione sia certificata, ma oggi mi si dice che potrei dovere aspettare ancora per altri 6 o 7 anni, a meno che qualcuno non decida di mettere mano alla mia pratica dormiente. E io? Come faccio a lavorare per tutto questo tempo senza potere viaggiare?”.

Youssef Mobayed, pur parlando di complesse e fastidiose peripezie personali, non perde quel suo sorriso educato delle genti arabe di un certo lignaggio. D’altronde ha visto ed è fuggito da una guerra, riuscirà pure a scampare anche alla burocrazia, almeno così noi gli auguriamo, stesso augurio che rivolgiamo alle tante persone che certamente versano nella sua stessa situazione.

“Nel mio lavoro ho fatto e continuo a fare molta fatica – spiega ancora Youssef Mobayed – . Anche in piena pandemia, quando avrei potuto allargare la mia attività, ho dovuto invece pensare a sopravvivere. Eppure io esporto prodotti italiani all’estero, muovo l’economia di questo Paese. Non dico che merito di essere aiutato o privilegiato, ma di essere trattato correttamente, questo sì. Insomma, non vivo per strada di carità, lavoro e pago le tasse. Assolvo i miei oneri, chiedo vengano rispettati anche i miei diritti”.

Poi Youssef Mobayed saluta, stringe la mano, chiude la porta e si rifugia di nuovo nel suo ufficio. L’imprenditore rifugiato.