La Cina sceglie i vescovi cattolici

papa Francesco accigliato B

Il segretario di Stato americano Mike Pompeo non è riuscito a incontrare papa Francesco. Il Pontefice, è stata la ragione addotta dalla diplomazia vaticana, non concede udienze a esponenti politici impegnati in campagna elettorale. Un modo elegante per non irritare il governo della Repubblica popolare cinese, attentissima e molto esigente, in vista del rinnovo dell’accordo sulla designazione bipartisan dei vescovi cattolici nell’Impero di Mezzo, in scadenza il 20 di ottobre prossimo.

Influenzato certamente da Trump, Pompeo aveva usato nei giorni scorsi una formula piuttosto grezza per conferire dall’esterno con Bergoglio, fatto certamente non gradito oltre le mura leonine. Gli Stati Uniti hanno esortato il Vaticano a non sottovalutare il pericolo cinese: una dittatura comunista che disprezza i diritti civili e non concede ai suoi cittadini la libertà di culto.

Ma Bergoglio segue una sua personale Ostpolitik, sul modello che fu creato e guidato per lunghi anni a fine Novecento dal cardinale Agostino Casaroli, e mette il pragmatismo degli interessi vaticani davanti alle grandi questioni di principio.

La Chiesa cattolica vuole arrivare in Cina. Quattro secoli e mezzo dopo Matteo Ricci, il gesuita che portò in Oriente la cultura occidentale, il sogno di ogni papa (e del gesuita Bergoglio, ancor di più) è stato quello di poter visitare il più popoloso paese del mondo e di portarvi il messaggio cristiano.

I cattolici, in Cina, sono circa dieci milioni. Una micro-minoranza, se confrontata al miliardo e 400 milioni di persone governate dal regime di Pechino. Ma quei dieci milioni di individui sono i pionieri per una massa umana alla quale la Chiesa universale è obbligata a rivolgersi per costruire un futuro di fede e di espansione cristiana. Soprattutto durante il ventunesimo secolo.

Tra il Palazzo Apostolico e i piani alti del regime di Pechino si registrano oggi convergenze a lungo coltivate. A partire da una reciproca diffidenza, figlia del maoismo integrale e materialista, negli ultimi decenni le relazioni sono lentamente migliorate. I cristiani non vengono più perseguitati in nome dell’ideologia atea e iconoclasta comunista, il Vaticano non si permette più di fare osservazioni politiche sulle scelte del regime. Così si è avanzati insieme.

Particolarmente grave agli occhi occidentali fu nel 2014 il rifiuto di Bergoglio di incontrare il Dalai Lama, premio Nobel per la pace e massima autorità spirituale del buddhismo tibetano. Il papa ammise che, qualora avesse ricevuto in udienza privata il molto popolare Tenzin Gyatso, ci sarebbero stati degli “inconvenienti“. Inconvenienti facilmente individuabili in una rottura diplomatica con Pechino, che usa la leva del ricatto economico e politico nei confronti di qualsiasi paese che manifesti simpatia verso la causa tibetana.

Pur di tutelare la fiammella cattolica in Cina, il Vaticano si è anche piegato alla pretesa cinese di nominare i vescovi in forma concordata. Devono trattarsi di persone di reciproca fiducia, altrimenti scatta il veto.

Tramite Pompeo, Trump ha cercato l’appoggio della Santa Sede nella sua politica anti-Pechino, ma ha sbagliato tempi e modi. Francesco non è Giovanni Paolo II, il papa che volle agganciare la Chiesa al blocco occidentale per vincere la Guerra Fredda e liberare l’Europa orientale dall’oppressione sovietica.

La sua missione ha obiettivi precisi anche di natura geopolitica. Il consolidamento del Cristianesimo in Oriente è probabilmente il più importante. E se c’è qualche prezzo da pagare, si proceda pure. Le gravi condizioni in cui si trova oggi il Vaticano, ferito e piegato dagli scandali interni, non consentono di alzare la voce.