Il virus ci ha messi di fronte allo specchio

Don Giuseppe Dossetti

Questa volta, il confinamento pesa più duramente. In marzo, nonostante le preoccupazioni dolorose, la paura di fronte all’ignoto, abbiamo raccolto la sfida. Sapevamo che ci sarebbero stati dei sacrifici, ma ci aspettavamo il risultato; i numeri di giugno sembravano confermare questa aspettativa.

Oggi, invece, tutto è più incerto e remoto. Abbiamo dubbi sull’efficacia dei nuovi sacrifici, ma soprattutto cresce l’insofferenza per una situazione che durerà, non si sa fino a quando. L’immagine e il linguaggio della “guerra contro un nemico” non tengono più, perché ciò che sta entrando nelle nostre viscere è la dura presa di coscienza della nostra debolezza e fragilità, che sono antecedenti al virus e che il virus ha soltanto messo allo scoperto.

Siamo stati messi di fronte a uno specchio e l’immagine di noi che esso ci rimanda non ci piace. Ciascuno reagisce a modo suo: qualcuno si arrabbia e cerca il colpevole; qualcun altro decide che la parola “speranza” non ha senso. Si rischia di rinunciare a progetti belli e generosi, come sposarsi e avere dei figli, ma anche alla politica e all’impegno per il bene comune. L’orizzonte della vita si restringe, al punto che si cerca solo ciò che è immediato, perché “del doman non c’è certezza”.

“Vengono meno la mia carne e il mio cuore”: le parole del Salmo 73 non ci sono mai sembrate così appropriate. Il “cuore”, nella Bibbia, è il centro della persona. Il rischio che corriamo è che esso si frantumi in mille pensieri, in contraddittorie aspirazioni. Come unificare il cuore, come dargli un fondamento?

Il Cantico dei Cantici, stupendo inno all’amore, ci mette sulla buona strada: “Io dormo, ma il mio cuore veglia”, dice la sposa (Ct 5,2). Ci possono essere tante attività, impegni, sofferenze, progetti; soprattutto oggi, la nostra vita assomiglia a un mare agitato. Ma tutti sanno che, pochi metri sotto la superficie, c’è calma. Così può essere la nostra giornata, se il nostro cuore “veglia”, se cioè è orientato, unificato attorno a un pensiero pacificante: “Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, per sempre” (Sal 73,26).

Questa vigilanza ci dà stabilità. Il cristiano sa che la sua patria non è quaggiù: ma questo non significa non amare la vita, il lavoro, la bellezza, la solidarietà. Mi conforta l’immagine con la quale in vangelo descrive la vita del cristiano, quella del servo, al quale il padrone ha affidato un incarico, prima di partire. Egli assolve al suo compito con impegno, ma tende l’orecchio al suono dei passi del padrone, per andargli incontro e fargli festa. Oppure, possiamo dire, sempre con il Salmo 73: “Ma io sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria”.

Concludo con la preghiera, che un Padre della Chiesa del quarto secolo, Gregorio di Nazianzo, compose in morte di suo fratello: “ Accogli fra le tue braccia, o Signore, il mio fratello maggiore che ci ha lasciati. A suo tempo accogli anche noi, dopo che ci avrai guidati lungo il pellegrinaggio terreno fino alla meta da te stabilita. Fa’ che ci presentiamo a te ben preparati e sereni, non sconvolti dal timore, non in stato di inimicizia verso di te, almeno nell’ultimo giorno, quello della nostra dipartita. Fa’ che non ci sentiamo come strappati e sradicati per forza dal mondo e dalla vita e non ci mettiamo quindi controvoglia in cammino. Fa’ invece che veniamo sereni e ben disposti, come chi parte per la vita felice che non finisce mai, per quella vita che è in Cristo Gesù, Signore Nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”.