Il disinteresse per il messaggio cristiano

don Giuseppe Dossetti Centro Giovanni XXIII Reggio Emilia

Una delle frasi più imbarazzanti del Vangelo è quella che viene proclamata oggi nelle chiese. Gesù, rivolto ai suoi discepoli, dice: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Essa suona strana, riferita ai suoi discepoli di allora; ma tanto più lo è, se è rivolta a quelli di oggi. Potremmo capire, se fosse un’esortazione: “Siate la luce del mondo”. Ma qui si dice che noi lo siamo, volenti o nolenti, e che questa luce non può restare nascosta, come non si può non vedere una città posta in cima alla collina.

E’ ben vero che Gesù aggiunge: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Certamente, le buone opere manifestano la luce, che però c’è già: in che cosa dunque essa consiste e quale ne è l’origine?

La domanda è difficile, perché la trasparenza della luce nella vita della Chiesa di oggi non è poi così scontata. Accanto alle opere buone, ci sono quelle che non lo sono e che rappresentano dei macigni sulla coscienza ecclesiale e degli scandali per l’opinione pubblica. Ne cito due: il dramma della pedofilia e la tragedia della guerra, nella quale i cristiani sono su posizioni opposte. Ma questo è forse ancora il meno. La cosa più dura, per me, è il disinteresse per il messaggio cristiano, come se l’uomo dicesse: “Scusate tanto, ma io cerco altrove, anche perché ho problemi più urgenti”.

Non mancano coloro che apprezzano l’impegno caritativo della Chiesa. Tuttavia, spesso si loda la luce, senza chiedersi da dove essa provenga. Il messaggio religioso in senso proprio, viene considerato una sovrastruttura più o meno mitologica, e Gesù diventa un mite predicatore dell’universale fratellanza: interessante, ma poco realistico.

Penso che si debba riconoscere, anzitutto, che la luce che il Maestro attribuisce ai suoi discepoli è una luce riflessa. Essa viene da fuori, da lui. Egli dice: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). L’essere luce dipende dal seguire Gesù, dall’essere suo discepolo: in altre parole, dalla fede. Le opere vengono dopo, come conseguenza, e anche come condizione per “rimanere nella luce”: “Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo” (1Gv 2,10). Anche se può sembrare strano, mi azzardo a dire che, per la Chiesa, è necessario approfondire il legame tra la sua vita e le sue scelte, e la persona di Gesù. Facciamo due esempi.

Alla luce, si vedono meglio i difetti e le macchie. Ma per l’uomo, essere sincero con se stesso non è facile. Tuttavia, accompagnati dal Crocifisso, possiamo riconoscere le nostre miserie e i nostri tradimenti senza disperarci, pensando che siamo stati amati in anticipo e che nulla è impossibile a Dio, neanche perdonarci.

La stessa luce illumina ogni uomo e ne rivela la dignità. “Uno è morto per tutti”, dice san Paolo (2Cor 5,14). Qui sta il fondamento della nostra uguaglianza: non c’è un valore più grande dell’infinito, come infinito è il valore del sangue di un Dio.

La nostra luce è una luce riflessa, come la luna, che non brilla di virtù propria, ma riflette la luce del sole. Il sole è Gesù, morto in croce per amor nostro e risorto per accompagnarci e sostenerci nella traversata anche del deserto più arido. Senza questo fondamento, è molto difficile resistere al male e non cedere al pessimismo. La carità è nello stesso tempo il dono che riceviamo e lo spiraglio attraverso il quale il mondo può sentire il sapore di Dio.