Ecco i Ridillo: ‘Pronti, Funky, Via!’

Hanno costanza, grinta e fegato. Non mollano. E appena la pensano, una cosa qualsiasi, riescono a realizzarla. Bene, con amore.
I Ridillo non sono mai “spariti”, anzi, hanno masticato chilometri e suonato su palchi importanti. Escono con un nuovo album, Pronti, Funky, Via! raccontando di un viaggio nel tempo e nello spazio lungo 13 inediti, a cui si aggiungono 3 bonus track.
 
I nuovi arrangiamenti di “Grande figlio di puttana” degli Stadio (scritta da Lucio Dalla), di “Buongiorno anche a te” di Loredana Bertè (scritta da Pino Daniele), fino a “Stasera che sera” dei Matia Bazar, con l’incredibile voce di Marina Santelli, già corista nel disco Payboys del 2008 sempre dei Ridillo.
 
Il nuovo disco – ovviamente in pieno stile funk, ma capace di accarezzare note soul, R&B, disco e hip hop – arriva dopo un doppio album inciso live al Blue Note che, appena uscito, raggiunge subito il primo posto nella chart R&B/Soul di iTunes. 
 
I brani – pensati, scritti e arrangiati in anni di meditabonde e fertili “reunion” (la produzione artistica è affidata a Daniele Bengi Benati che ha co-prodotto tutto il disco insieme ad Azzurra Music) – con un piglio sempre futuristico, tracciano atmosfere leggere, caleidoscopiche e colorate, richiamando gli anni ’80. 
Sulla cover, la pista da ballo in pieno stile Febbre del Sabato Sera diventa un’astronave che approda sul “Pianeta Terra”, scelta non a caso come singolo di lancio del progetto.
 
Tante anche le collaborazioni: Sam Paglia e il suo Hammond per Funkora; il soul-funk di Ronnie Jones per Shake ‘em up; Randy Roberts in Ciao Ciao Ciao e il gruppo teen dei Black Taste (band del figlio di Bengi, Manuel) per Algoritmo.
 ‘Good vibes’, in buona sostanza, che mi fanno venire voglia di approfondire alla radice il senso della cosa.
 
Ragazzi, dovreste mettere in classifica le ragioni di questo ritorno: quali sarebbero le prime tre posizioni?
Dieci dischi d’inediti e tanti cofanetti, ad esempio. Noi non siamo mai andati via. Prima di questo disco c’è stato un doppio live al Blue Note, con Ronnie Jones come ospite. E’ un po’ che non uscivamo con degli inediti, è vero, ma siccome suoniamo continuamente, ogni tanto facciamo anche un disco. 
 
E’ stupido chiederlo a voi, ed essendo stupida la domanda mi aspetto una risposta intelligente, ma secondo voi c’è ancora spazio per la musica funk in Italia, spazio tra i giovani? 
Certe sonorità sono tornate in auge con i Daft Punk, Pharrel Williams, Bruno Mars, The Weeknd che funzionano. Noi già nel ’97 però cominciavamo così anche Figli di una buona stella. Se l’hai sempre fatto, come nel nostro caso, diventa più difficile. C’è tutta una nuova scena musicale – da Frah Quintale a Willie Peyote – che non è più campionata, rappata, ma suonata; con l’hip pop che prende dal funk. E’ tornato il gusto e il modo di suonarlo e questo ci fa piacere per tutte queste nuove generazioni. 
Il genere funk rimane pur sempre, discograficamente, di nicchia, ma finché continuamo a suonare non possiamo che essere felici: c’è sì, una profonda frattura tra quello che succede sui palchi e quello che ufficialmente passano le radio. Almeno in Italia, dove senza un accordo commerciale non succede nulla. Al contrario all’estero c’è ancora un filo di speranza.
Fai conto, che senza averlo ancora annunciato, in autonomia e per pura casualità, la radio svizzera ha già messo in palinsesto in rotazione il nostro prossimo singolo, Funkora. Questo aiuta chi suona, chi fa radio, chi l’ascolta. Eccome se aiuta. 
 
Andrò a casa con i lividi e capirò, ma non posso fare a meno di chiedervi se vi sentite più Figli di una buona stella, o Grandi figli di puttana (passatemi il plurale), per citare due grandi successi, una vostro e l’altro degli Stadio, scelto per essere reinterpretato in questo ultimo album?
Ci sembrava giusto fare questa citazione. Quando nacque Pace e Amore vent’anni fa, sembrò per un attimo che gli Stadio la volessero nel loro disco. Figli di una buona stella, poi, a sua volta era già un omaggio, vent’anni dopo, a Figli delle stelle di Alan Sorrenti.
E quindi tra vent’anni aspettatevene un altro. Ma per rispondere alla tua domanda [ndr. con tanto di risata], diremmo che ci sentiamo più figli delle stelle: non siamo così tanto rock’n’roll da sentirci figli di puttana. 
 
Come avete convinto Ronnie Jones (mitico dj degli anni ’80) a “feat.tare” con voi? Per il prossimo album, state seriamente pensando a chi: Matusalemme, Mattarella, o facciamo resuscitare i Bee Gees?
Ci piacciono gli anziani! L’abbiamo già fatto con Carmen Villani. E’ ovvio che alla base sia fondamentale farlo con gente che ha qualcosa da dire e con la quale sentiamo di avere un feeling. Con Ronnie Jones è nato tutto due anni fa, durante il Disco Diva di Gabicce, il Disco Music Festival.
Dovevamo fare un pezzo insieme, si ricordava dei Ridillo, ma non si fidava più di tanto di noi e si era preparato le basi in caso non riuscissimo a suonare live. E’ piovuto quel giorno e non siamo riusciti nemmeno a fare il sound check. Senza prove, la sua stima nei nostri confronti non era di certo cresciuta. Quando però finalmente ci ha sentiti, durante la nostra parte di concerto e arrivato il suo turno è salito sul palco, ha fatto segno di escludere la base, perché <<questi son bravi, suonano davvero>>, avrebbe detto.
Così lo abbiamo richiamato nel live al Blue Note e poi abbiamo scritto un pezzo insieme per Pronti, Funky, Via! che è appunto Shake ‘Em Up. E’ stata una grande esperienza, perché un conto è vivere e condividere il palco e l’altra scrivere un testo su un tracciato, su una melodia. E’ una canzone che parla dei politici che non sanno ballare, che non si lasciano andare mai; dell’idea che si debba sempre scuoterli noi, che gli si debba indicare la via, suggerirgli cosa dire.
Faremo tre date insieme: una in Ticino, per il Funk and Soul on the Lake; una a Forte del Chievo, in provincia di Verona; poi di nuovo al Disco Diva di Gabicce.
 
Parliamo de L’invenzione della donna, titolo di uno dei brani inediti del nuovo album: quando vi sembra sia un bene e quando vi sembra un male? E secondo voi chi ha avuto la brillante idea d’inventarla?
Difatti, nei brani ce lo si chiede! Sicuramente – e parla Benji Benati che l’ha scritta – io credo senza riserve nella forza della donna: oltre ad essere quella che ci da la vita, e senza entrare in merito al fatto se sia arrivato prima l’uovo o la gallina, lascia qualcosa di lei in ognuno di noi. Ognuno di noi ha qualche caratteristica che originariamente è spiccatamente della donna: io ho fiducia in questa parte femminile che è in tutti noi e volevo renderle omaggio. 
 
Le vostre canzoni sono un caleidoscopio sonoro che piace a livello trasversale a più generazioni, anche ai bambini. Quanto è importante? 
Ci siamo portati dietro un pubblico che è cresciuto con noi. La musica ha di bello che parla per vibrazioni, che arrivano a cuore e cervello con immediatezza. I bambini, non avendo filtri, senza nessun pregiudizio, capiscono subito se qualcosa gli piace oppure no. Poi, per quanto ci riguarda, c’è un vuoto generazionale in mezzo. Il ragazzo giovane non ci segue. Sono diverse volte che ci esibiamo al Blue Note, abbiamo già la data del prossimo anno, ed ogni volta è sold out. Vai in un posto piccolo, pubblico, con un prezzo decisamente più popolare e fatichi invece a riempirlo. Probabilmente, il nostro pubblico ha già un’età o il mood di quello che vuole stare tranquillo, seduto a godersi lo spettacolo, senza code, senza stress.
 
Vi dichiarate mantovan-emiliani, ma vogliamo sapere se vi sentite più l’uno o più l’altro? Che rapporto avete con la terra di mezzo, con l’argine del PO, tanto per capirci?
Quando sei sul confine nessuno ti sente appartenente alla propria Provincia, ma per maledizione o fortuna, sentiamo il beneficio di essere condivisi da più terre e di avere quindi più influenze. Non essere di nessuno è il nostro plus valore. 
A proposito di collaborazioni tra le terre di mezzo, in tempi non sospetti, condividendo una bresaola abbiamo lavorato con Giovanni Lindo Ferretti che avrebbe detto proprio questo: c’è un tratto comune che lega gli artisti di questa zona, ed è l’essere su un grande fiume, un elemento che ha un fondo di verità. Un po’ come il Mississipi per la musica Americana.
 
Si vocifera ugualmente di un inasprimento verso altri generi ed artisti emiliani, anche se avete collaborato negli anni con una miriade di loro: come vi scegliete, aldilà (o aldiquà) del fiume?
Perché? C’è il massimo rispetto per chi se l’è guadagnata tutta. Poi ci sono le collaborazioni più forti, le amicizie vere, come quella con Paolo Belli.
E’ sicuramente più facile scrivere canzoni tristi; noi siamo tra i pochi che compongono “in maggiore”, cose non insensate ma positive, che appartengano alla sfera dello star bene, allegre insomma. Abbiamo, ad esempio, iniziato una collaborazione con la famiglia Casadei: Raul ha una visione incredibile e sulle sue cose ha sempre scelto slogan chiari, efficaci, di facile acquisizione. Quando ha sentito Mangio Amore, su tutte, si è innamorato della sua immediatezza.
 
Dai tempi di Mangio Amore ne avete fatta di strada, ma c’è qualcosa ancora che vi manca? Potrebbe essere il motivo per cui siete ancora qui?
Pensa che nell’album live al Blue Note, raccontiamo pezzo per pezzo, proprio degli insuccessi. E’ importante, significa che credi in quello che fai anche quando non funziona. Forse il fatto di non avere mai “sfondato”, ci ha permesso di essere ancora qui. C’è una frase di Cesare Zavattini, nel testo Un Paese, che mi ha ispirato: <<Le coppie verso sera vanno a fare l’amore sotto i salici alternando i baci agli schiaffetti che si danno sulla faccia per ammazzare le zanzare>>. Ci ho scritto un pezzo, subito dopo l’enorme successo di Figlli di una buona stella e le radio, che alternavano il nuovo singolo, quando lo hanno sentito sono rimaste di stucco: è forse stato il più grande insuccesso di sempre. Dieci anni dopo, è diventato la sigla del programma La Zanzara di Cruciani su Radio24. Forse bisogna solo aspettare. Abbiamo fatto la TV, quella del sabato sera, dell’avanspettacolo vero, che non esiste nemmeno più. Abbiamo suonato e risuoneremo quest’anno con Luca Bottura ed Enrico Bertolino al Premio Campello. Insomma, non saprei cosa manca, se non di augurarci di fare ancora più “estero”, perché l’estero ci sta dando grandi soddisfazioni.