Don Borghi: un partigiano senza fucile né pistola

pasquino

di Fiorella Ferrarini

Don Pasquino Borghi: “Partigiano del bene e della carità”. E’ così che la madre ha definito don Pasquino Borghi, fucilato dai fascisti il 30 gennaio 1944 insieme a otto patrioti, presso il Poligono di tiro di Reggio Emilia. Per Orsola Del Rio, il figlio “è sempre stato resistente all’ingiustizia e alla violenza (..). A Tapignola aveva continuato a fare quanto aveva fatto in Africa, il missionario, dando tutto ciò che aveva agli altri”. (1)

Pasquino Borghi nel settembre del 1924, autorizzato dal vescovo monsignor Eduardo Brettoni, anziché continuare gli studi teologici nel Seminario di Albinea, si era recato a Venegòno Superiore (Varese), presso l’Istituto Benedetto XV per le Missioni Africane, dove iniziare il noviziato di due anni.

Consacrato Sacerdote a Verona il 5 aprile 1930, partì tre mesi dopo come Missionario Comboniano nel Sud Sudan anglo-egiziano, sino a giugno 1937. Rientrò quindi in Italia per motivi di salute e dopo un periodo di cure presso la clinica dell’Istituto per le Missioni Africane, si recò a L’Aquila, dove collaborò con alcune riviste missionarie. Nel maggio 1938 scelse come monaco certosino la solitudine e la meditazione presso la Certosa di Farneta (Lucca). A gennaio 1940, dopo la dispensa dai voti monacali, fu destinato a Canolo di Correggio come cappellano e il 30 agosto del ‘43 fu nominato Rettore di Tapignola-Coriano. Salvatore Fangareggi a tal proposito scrive: “Tapignola era in una posizione singolarmente strategica per la lotta partigiana. E già nell’ottobre del ’43 i primi nuclei ribelli cominciavano a percorrere la montagna”.

A partire dall’incontro nella canonica di Sologno di Villaminozzo con Aldo Cervi, don Pasquino manifestò la volontà di collaborare mettendo a disposizione la canonica. (2)

Secondo Fangareggi l’avventura partigiana di don Pasquino Borghi è stata in tutti i sensi una “avventura cristiana”, attestata anche da don Domenico Orlandini “Carlo”, il comandante della Brigata delle Fiamme Verdi: (…) “Il don Borghi sino dai primi giorni che seguirono l’armistizio, si diede con grande spirito di abnegazione, e sfidando qualsiasi pericolo, alla assistenza dei prigionieri alleati sfuggiti dai campi di concentramento. Egli li raccoglieva, li assisteva moralmente e fisicamente spendendo quanto aveva di suo (…). Circa cinquanta furono i prigionieri assistiti in tal modo da don Borghi… Tanto debbo segnalare per debito di giustizia verso il martire della Libertà e della Carità, essendo io a conoscenza perfetta, più di qualsiasi altro, del lavoro prezioso che egli ha svolto”. (3)

Nel gennaio del 1944 in un incontro presso la canonica di S. Pellegrino, dove don Pasquino si era recato a chiedere aiuti finanziari e medicinali per i partigiani ospitati a Tapignola, Don Angelo Cocconcelli e Giuseppe Dossetti lo supplicarono di allontanarli dalla casa parrocchiale per il pericolo mortale che correva. Lui rispose: Ma si può anche dare la vita per la patria libera. E nella parola patria, c’è l’Italia, c’è da parte di don Pasquino il pensiero di una rinascita morale, civile e politica della nazione. Il 21 gennaio 1944, dopo uno scontro a fuoco tra i partigiani ospitati e alcuni militi della locale GNR con un gruppo di Carabinieri, don Pasquino fu arrestato nella canonica di Villaminozzo per aver ospitato una banda armata ribelle. (4)

“Fu malmenato nel modo più indegno, con percosse e insulti dei militi che gli strapparono la veste di dosso e lo schiaffeggiarono chiamandolo “pretaccio” e andando anche di notte ad insultarlo e a percuoterlo”, prima nel carcere di Villaminozzo, quindi nel famigerato carcere dei Servi a Reggio Emila, poi nel carcere mandamentale di Scandiano. (5)

La fucilazione avvenne senza alcun processo, al di fuori di ogni norma legale vigente, come rappresaglia per l’uccisione del Csq. Angelo Ferretti (GNR). Il “processo” del Tribunale Provinciale Straordinario consistette nella semplice redazione della sentenza di condanna per i nove. Nessun interrogatorio, nessun dibattimento… Soprattutto l’esecuzione avvenne senza che il vescovo Brettoni fosse stato informato dal Capo della Provincia Enzo Savorgnan. (6)
Sergio Paderni, poco più che quindicenne nel 1944, cresciuto in un collegio della gioventù fascista a Roma, dopo l’8 settembre del ’43 era venuto a Reggio Emilia con la madre presso i nonni. Fu il vicefederale a selezionarlo per il plotone d’esecuzione insieme ad un amico coetaneo, e obbligato a dare il colpo di grazia a don Pasquino. Gesto gravissimo, dirompente, motivo di grande e costante sofferenza per il ragazzo e in seguito per l’uomo, come da successive sue dichiarazioni. Ma il perdono, richiesto da don Pasquino a tutti per il dolore recato al vescovo e ai confratelli, soprattutto donato ai suoi uccisori in punto di morte, e nel ’46 espresso dalla madre, avrebbe ricostituito e rigenerato la vita di S. Paderni, tanto da produrre in seguito la sua specifica vocazione laica di curatore delle vite altrui come medico.

L’eredità spirituale che l’anziana madre di don Pasquino è stata chiamata ad accogliere dal figlio, sconvolgendo le leggi di natura, la portò infatti nel ‘46, nel corso della sezione speciale di Corte d’Assise, a indirizzare ai giudici straordinarie parole di perdono per il giovanissimo componente del plotone d’esecuzione: “In nome di Cristo e della Vergine SS., sull’esempio eroico dell’Amato Figlio Don Pasquino, in sua memoria, per la pacificazione degli animi da lui auspicata nel supremo istante del sacrificio della propria vita, perdono Cristianamente all’esecutore materiale della iniqua sentenza, che ho saputo essere stato un disgraziato giovinetto di appena 15 anni di nome S. Paderni, irresponsabile per la sua età, e per la cattiva educazione ricevuta, in fede”. I giudici popolari hanno mandato assolto il giovane imputato. (7)

Desiderosi di promuovere la storia esemplare di don Pasquino, e trovando a questo fine innanzitutto la comprensione paterna e collaborativa del vescovo mons. Massimo Camisasca, insieme all’indispensabile aiuto di diversi storici reggiani e di molti amici (era nato nel 2017 a questo fine il “Gruppo di lavoro Amici di don Pasquino Borghi”), ci siamo impegnati nella ricerca di Sergio Paderni. Siamo stati fortunati.

Ed è nata una corrispondenza rispettosa durata diversi anni. Ecco alcune sue considerazioni inviateci per lettera:

“… credo che vi sia una necessità generale di invocare tutti un perdono vicendevole, anche nei confronti di chi, più adulto e con responsabilità maggiori, ha permesso – anzi ordinato – che due ragazzi di appena quindici anni, cresciuti ed educati nel collegio che era il fiore all’occhiello del regime fascista e dove vigeva la parola d’ordine “credere, obbedire, combattere”, venissero coinvolti nell’episodio cruento dell’uccisione di don Pasquino Borghi. La fede nel Dio d’amore, che è alla base del nostro cristianesimo, e l’esempio di Gesù, che ha perdonato i suoi uccisori-giustificandoli per di più “perché non sanno quello che fanno” – richiedono anche a noi… di fare del perdono, della comprensione vicendevole e della compassione il connotato fondamentale dei rapporti vicendevoli”. (8)
Durante la commemorazione di Don Pasquino Borghi celebrata dal vescovo monsignor Camisasca il 30 gennaio 2021, presso la Basilica della Ghiara, don Giuseppe Dossetti dopo averla formulata, ha letto una commovente memoria, precedentemente sottoscritta da Sergio Paderni e dai nipoti e pronipoti di don Pasquino Borghi di Reggio Emilia e di Buenos Aires, dove nel dopoguerra si era trasferita una sorella. Ecco il testo: “Il 30 gennaio prossimo ricorrono settantasette anni dall’uccisione di don Pasquino Borghi. Non sarà possibile dare molta visibilità a questo anniversario, data la situazione di incertezza, dovuta all’epidemia del virus Covid-19.

Sarà tuttavia l’occasione per un ricordo più intimo e per una riflessione più intensa su un evento che ancora ci interroga e che, forse proprio per l’universalità della sofferenza che il mondo sta vivendo ormai da un anno, può aiutarci a trovare la nostra strada, che non può essere il ritorno a ciò che eravamo. Ce lo ha ricordato Papa Francesco: “La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori “(26.08.2020).

Così fu anche allora. Il mondo usciva devastato dalla guerra: non solo eravamo di fronte alla distruzione delle nostre città, ma c’erano macerie spirituali che resero difficile la ricostruzione morale del nostro Paese. Vogliamo testimoniare che dal dolore, dalle crudeltà, dalle colpe, potè sorgere un’energia buona, che ha accompagnato noi e tante altre persone in un cammino di giustizia e di rinnovamento.

Il seme fu gettato da don Pasquino. Noi lo onoriamo come “martire della carità”: furono la carità evangelica, la pietà per le sofferenze del suo popolo, la speranza di un mondo più fraterno a guidare le sue scelte. Consegnandosi con mitezza alla morte, egli aveva presente la frase del Vangelo: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv. 12,24). Tutto sembrava smentire la sua fede, il male sembrava celebrare la sua vittoria: come Abramo, “sperò contro ogni speranza”.
Ma noi siamo qui, per attestare che quel seme è stato immediatamente fecondo e che, ancora oggi, suscita pensieri buoni e propositi generosi.

Il primo frutto fu il perdono che la sua mamma, Orsolina, accordò al giovane che aveva partecipato alla fucilazione di suo figlio. Ella scrisse: “Sull’esempio eroico dell’amato figlio Don Pasquino e in sua memoria, per la pacificazione degli animi da lui auspicata nel supremo istante del sacrificio della propria vita, perdono cristianamente all’esecutore materiale dell’iniqua sentenza”.
“Noi familiari di don Pasquino siamo convinti che queste parole non solo hanno tolto dal nostro animo ogni desiderio di vendetta, ma ci hanno orientato a seguire il suo esempio, nell’impegno per il bene comune”.

“Allo stesso modo io, Sergio, allora quindicenne, fui certo del perdono di don Pasquino subito dopo la mia partecipazione alla sua fucilazione. Mia madre lo comprese subito e lo scrisse alla mamma di don Pasquino, ringraziandola per il suo gesto: “Mio figlio non potrà mai dimenticare quello che ha visto in quella tragica mattina e quel ricordo sarà sempre di sprone a bene operare in ogni azione della sua vita”. Da quel momento, cercai di dare alla mia vita il senso di un servizio ai malati e ai bisognosi, ricordando e invocando ogni giorno, nelle mie preghiere, l’intercessione di quell’uomo, il cui sangue, come disse mons. Camisasca, “è diventato luce”.

Sottoscrivendo insieme questa memoria, vorremmo dare un messaggio di speranza a chi vive oggi con tanta difficoltà l’epidemia e le sue conseguenze, la paura, la povertà, la perdita di persone care.

Vogliamo ripetere, con l’apostolo Pietro: “La carità copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,8). La memoria di don Pasquino ci ha reso più buoni e anche, riteniamo, cittadini migliori.
Neanche due mesi dopo S. Paderni ha concluso la sua vita terrena, non prima di averci lasciato, insieme ai familiari di don Pasquino, il dono della riconciliazione.

Foto inedita di don Pasquino, inviata dai familiari di Buenos Aires

NOTE

1) La Roccia, Mio figlio, don Pasquino, Orsola del Rio Borghi, 15 ottobre 1970, Seminario di Reggio Emilia, pag. 8.

2) NOTA: Salvatore Fangareggi, Un prete nella Resistenza, La Tartaruga, Roma, 1975, pag. 63.

3) Don Carlo Lindner, Nostri preti, Edizioni Age, Reggio Emilia, 1950, pag. 186

4) Don Angelo Cocconcelli. Parroco di San Pellegrino. Pagine di fede e libertà, Prefazione di don Giuseppe Dossetti, a cura di Paolo Burani, Edizioni Bertani, 2001, pag. 110.

5) S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo stato totalitario alla democrazia: la Resistenza come problema, vol.3, Tecnograf, R.E.2001, pag.616

6) Massimo Storchi, DON PASQUINO E I SUOI, IL “PROCESSO”, I PROCESSI, QUALE GIUSTIZIA? in Il tempo e la vita di don Pasquino Borghi, Comune di Bibbiano, Istoreco, 2004, pag. 146 e 153.

7) La fucilazione di don Borghi. Un quindicenne del plotone d’esecuzione. Assolto in Corte d’Assise, Reggio Democratica, n.60., pag. 2, 5 marzo 1946

8) Lettera manoscritta di S. Paderni, agosto 2017